mercoledì 31 gennaio 2018
Tito, artista e padre passionista, è morto oggi a Roma. Aveva 91 anni. Suo è il tabernacolo della cappella di Santa Marta, in Vaticano. Aveva lottato contro il kitsch nelle chiese
Tito Amodei mentre lavora sulla sua opera "La grande scultura", 1986 (Galleria Sala 1).

Tito Amodei mentre lavora sulla sua opera "La grande scultura", 1986 (Galleria Sala 1).

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Si è spento questa mattina a Roma padre Tito Amodei, artista e padre passionista, protagonista fin dal dopoguerra dell'arte contemporanea - non solo sacra - internazionale. Aveva 91 anni. È morto per cause naturali.

Padre Amodei, in arte Tito, ha esposto in tutto il mondo, da New York a Baghdad. Ha realizzato sculture, mosaici e vetrate in molte chiese. È suo il tabernacolo della cappella di Santa Marta in Vaticano. Lavori di Tito sono conservati ai Musei Vaticani, allo Smak di Gand, all’Albertina di Vienna, al Museo di arte moderna di Tel Aviv.

Pur se i suoi soggetti spaziavano con grande libertà, dando seguito alla sua vocazione religiosa, tema privilegiato è stata la Passione di Cristo, sia in pittura che in scultura, come la Via Crucis in bronzo nei Sassi di Matera. Tra le sue imprese più vaste, anche il grande fregio di 30 metri in terracotta del Collegio Massimo all’EUR (Roma) e il mosaico (250 metri quadrati) nel Santuario di Santa Maria Goretti (Nettuno).

Padre Tito, però ha sempre cercato di fare arte senza etichette, che fosse una Deposizione o un’opera astratta: «L’artista vero - disse in un'intervista ad Avvenire in occasione dei suoi 90 anni - o che presume di esserlo, fa le cose indipendentemente dal soggetto. Io ho cercato sempre di sostenere il mio carattere, il mio stile».

Pittore, scultore, incisore, Tito Amodei era nato a Colli al Volturno (Isernia) nel 1926; membro della Congregazione passionista, risiedeva a Roma nella Comunità della Scala Santa dal 1966 e dove nel 1970, accanto al suo studio, aveva fondato il centro d'arte sperimentale Sala 1, che ha diramato la notizia della morte.

Si era diplomato in pittura con Primo Conti all'Accademia di belle arti di Firenze, mentre in scultura era autodidatta. Una disciplina che però aveva incontrato fin da bambino: «Mio padre si faceva gli strumenti da sé, e allora anch’io combinavo qualcosa col coltellino e un pezzo di legno. Io poi ho un rapporto molto fisico con gli oggetti, quando faccio un’opera devo prenderla in mano: è una cosa innata. Ho bisogno di stare addosso alla materia. Ho trovato il mio strumento nell’accetta».

Il linguaggio di padre Tito Amodei aveva subito diverse trasformazioni nel tempo. Partito dal naturalismo era approdato a un espressionismo vicino nei toni a Marino Marini e Fritz Wotruba. Tra gli anni 70 e 90 era passato a figure e poi strutture totemiche e minimaliste in legno, forse la fase più interessante delle sua produzione, progressivamente asciugate verso volumi del tutto astratti ed essenziali: «Sono partito dal naturalismo e camminando ho sfrondato la forma e lo spazio. Eliminando la figura, la rappresentazione, ti trovi a capire che lo spazio è l’alveo in cui opera la forma. Alla fine della vita sento il bisogno di liberarmi delle appendici. Devo arrivare alla sostanza, all’origine delle cose»

Oltre che nell'impegno diretto come artista, padre Tito Amodei ha affrontato il tema del dialogo tra arte contemporanea e sacro anche sotto un profilo teorico e organizzativo, promuovendo mostre e pubblicazioni e sollecitando la Chiesa ad aprirsi alle istanze religiose presenti nella cultura artistica contemporanea. Negli anni ’60 aveva bussato alle porte degli artisti, da Marini a Manzù, da Carrà a Vedova a Sebastian Matta, per chiedere quale fosse il loro rapporto con il sacro. Incontri confluiti nel 1962 nel volume 50 artisti per la Passione, da cui fu tratto un documenterio premiato alla Biennale di Venezia.

Nel 1971 padre Tito realizzò una mostra provocatoria dal titolo Arte, artigianato e cattivo gusto. «Il problema - spiegava - è molto più profondo di quanto si pensi. In questo modo le immagini rischiano di introdurre una deviazione al dogma. Bisogna dirlo in modo esplicito, perché possa servire a qualcosa: la Chiesa si è fatta complice di un artigianato industriale che deprime i misteri più alti della fede al kitsch più deprimente. Oggi il prodotto per il culto si trova già confezionato in modo banale, ovvio e scontato nei negozi di articoli religiosi. Siamo arrivati a un punto che la Chiesa dei primi secoli avrebbe condannato come eresia. Abbiamo ridotto la Madre di Dio a un’immagine senza corpo e senz’anima, per non dire di peggio».

Il funerale si terrà giovedì 1 febbraio alle ore 10.30 nella cappella di San Lorenzo alla Scala Santa



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