martedì 8 marzo 2016
Parla il padre passionista e scultore: «La Chiesa si è fatta complice di un artigianato industriale che deprime i più alti misteri della fede al kitsch più deprimente. Così manca l’anima»
L'artista padre Tito Amodei: il segno che fa la differenza
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Tutto ha avuto inizio con un segno. Padre Tito la chiama «un’epifania». Aveva sette anni: «Mio padre, un contadino, disegnò sul quaderno un asinello. Sul foglio bianco vidi prendere vita una forma. Fu uno sgomento e un’illuminazione». La magia di quel segno, nella luce della campagna molisana dove è nato nel 1936, Tito Amodei non l’ha più dimenticata e l’ha inseguita per tutta la sua vita. Anche oggi, sulla soglia dei 90 anni che compirà l’11 marzo: «Ogni giorno faccio qualcosa. Fermo non ci sto…». Tito Amodei è padre passionista e artista. Il suo studio, ai piedi della Scala Santa a Roma, è la sua cella. Vi scende ogni mattina, dopo la Messa. Ci è arrivato nel 1966 da Firenze, dove per volontà dei superiori aveva studiato all’Accademia, nelle classi di Primo Conti e Giuseppe Viviani. Le stanze traboccano di opere. Bronzi, gessi e dipinti carichi di energia espressionista degli anni 60, totem lignei degli anni 70, le geometrie e le forme che si fanno sempre più pure a partire dagli anni 80. Negli spazi annessi nel 1970 Tito ha fondato Sala Uno, dove ha organizzato mostre di artisti come Wotruba e Matta. Padre Amodei ha esposto in tutto il mondo, da New York a Baghdad. Ha realizzato sculture, mosaici e vetrate in molte chiese (suo è il tabernacolo della cappella di Santa Marta in Vaticano). Suoi lavori sono conservati ai Musei Vaticani, allo Smak di Gand, all’Albertina di Vienna, al Museo di arte moderna di Tel Aviv. Ha sempre cercato di fare arte senza etichette, che fosse una Deposizione o un’opera astratta: «L’artista vero, o che presume di esserlo, fa le cose indipendentemente dal soggetto. Io ho cercato sempre di sostenere il mio carattere, il mio stile». Ma se tocchi il rapporto tra sacro e contemporaneo, un tema su cui si batte fin da prima del Concilio, gli guizza lo sguardo: «Mi mette la miccia sotto i piedi». Accendiamola.

Padre Tito, lei nel 1971 realizzò una mostra provocatoria dal titolo Arte, artigianato e cattivo gusto. Perché?

«Il problema è molto più profondo di quanto si pensi. In questo modo le immagini rischiano di introdurre una deviazione al dogma. Bisogna dirlo in modo esplicito, perché possa servire a qualcosa: la Chiesa si è fatta complice di un artigianato industriale che deprime i misteri più alti della fede al kitsch più deprimente. Oggi il prodotto per il culto si trova già confezionato in modo banale, ovvio e scontato nei negozi di articoli religiosi. Siamo arrivati a un punto che la Chiesa dei primi secoli avrebbe condannato come eresia. Abbiamo ridotto la Madre di Dio a un’immagine senza corpo e senz’anima, per non dire di peggio».

Che caratteristiche dovrebbe avere un’opera per un luogo di culto?

«Se le dicessi che deve essere autentica sarei troppo vago. I parroci e i fedeli chiedono che l’immagine sia così o cosà, che rappresenti questo o quello. È tutto sbagliato. Alla fine è un problema di forma, non di soggetto».

E quella è responsabilità dell’artista.

«Puoi fare santa Teresa o un angelo, ma se la forma è mancante non dici nulla. All’inizio parti con l’imitazione della natura, e a un tratto vedi che il segno è emanazione di quello che sei. Poi ti puoi organizzare per decorare la Sistina, ma non conta quello che rappresenti quanto il come. È il segno che dà vita e senso alla figura».

Capita di vedere artisti capaci, quando creano per un luogo di culto, rinunciare al proprio linguaggio: anche senza richiesta esplicita...

«Vede (sorride, ndr), in questo studio ci sono molti invenduti... Non è che tutti i pittori vivano nell’oro. Il mio maestro Primo Conti ogni tanto diceva: “Questo è per la forchetta”. Lui sapeva di compromettersi con la sua etica, ma bisognava pur mangiare. Per un artista è faticoso rinunciare a se stesso. Ma resta sempre più faticoso essere sincero e autentico».

Negli anni ’60 lei bussava alle porte degli artisti per chiedere quale fosse il loro rapporto con il sacro. Che risposte riceveva?

«Nel 1962 ho pubblicato il volume 50 artisti per la Passione. Con molti sono andato a parlare in prima persona, da Carrà a Vedova, a chi non potevo scrivevo. La maggiore parte si meravigliava di questo fraticello che andava a chiedere come vedevano il sacro. Alcuni rispondevano in modo strafottente, altri evasivamente. La verità è che gli artisti percepivano soprattutto il disinteresse nei loro confronti da parte della Chiesa. E poi in quegli anni chi era di sinistra lo era in modo aggressivo. A me non interessava. Ma anche tra i cattolici, sa, non era facile».

Quali sono gli incontri che l’hanno più colpita?

«Marino Marini, era il mio punto di riferimento come scultore. A Manzù portai il mio libro, in cui c’erano sue opere: “Io non ho fatto cose sacre – esclamò – non sono uno scultore sacro!”. E poi Sebastian Matta. Stava a Tarquinia. Il suo segretario mi disse che avrei avuto a disposizione un quarto d’ora. Andai alle tre di pomeriggio e rimasi fino alle tre di notte. Diventammo amici».

Se rifacesse il giro oggi pensa che troverebbe la stessa accoglienza?

«No, sono meno aggressivi. Ma non meno sfiduciati. Sulla committenza è cambiato poco».

Quando ha scoperto la scultura?

«Da ragazzino. Mio padre si faceva gli strumenti da sé, e allora anch’io combinavo qualcosa col coltellino e un pezzo di legno. Io poi ho un rapporto molto fisico con gli oggetti, quando faccio un’opera devo prenderla in mano: è una cosa innata. Ho bisogno di stare addosso alla materia. Ho trovato il mio strumento nell’accetta».

L’accetta è uno strumento impreciso, imprime soprattutto un segno. Come lavora?

«Libero il tronco dalle parti superflue. L’accetta, con quella lunghezza, con quel peso, è per me la protesi della mano. È una combinazione fisiologica e poetico-spirituale. Il colpo nella sua forza è proporzionato sempre all’obiettivo. Mi muovo in modo quasi automatico. La trovo uno strumento perfetto per un’epoca in cui è importante soprattutto il dialogo con la materia».

C’è molta distanza tra i suoi primi lavori e gli ultimi. Come ci è arrivato?

«In realtà è tutto consequenziale. Sono partito dal naturalismo e camminando ho sfrondato la forma e lo spazio. Eliminando la figura, la rappresentazione, ti trovi a capire che lo spazio è l’alveo in cui opera la forma. Alla fine della vita sento il bisogno di liberarmi delle appendici. Devo arrivare alla sostanza, all’origine delle cose».

In questo sfrondare, in questa ricerca dell’essenziale, c’è un parallelo tra il suo lavoro di scultore e quello interiore di religioso?

«Sì. Io vivo una stagione, l’ultima della mia vita, di simbiosi con le cose. Vede quest’opera (mostra una grande scultura composta da un volume a forma di uovo sospeso davanti a una parete curva, ndr). Questo è l’essenziale. È lo spazio che accoglie la forma e la forma che modifica lo spazio. A forza di levare si giunge alla purezza. Questo per me è l’ultimo lavoro, la sintesi di tutto il mio percorso».

È la sua opera finale?

«Lo vorrei proprio. Oltre c’è solo il silenzio».

Padre Tito, cosa è stata la vita?

«Sono grato al Signore di avermi chiamato. Se penso alla grandezza del mistero del sacerdozio, che ti fa partecipe di Cristo, non finisco mai di sorprendermi e anche di umiliarmi. Sono contento dell’arte. E di questi 90 anni...».

Ha un rimpianto, qualcosa che avrebbe voluto fare e non c’è riuscito?

«Avrei voluto farmi santo».

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