Un bel ritratto di John le Carré, scomparso a 89 anni - Ansa
Le spie sono creature malinconie. Questa, almeno, è l’idea che in sessant’anni quasi esatti di carriera (il suo primo romanzo, Chiamata per il morto, porta la data del 1961) John le Carré ha trasmesso ai lettori con una sapienza letteraria che nel suo caso andava molto al di là delle anguste definizioni di genere. Morto sabato scorso a Truro, in Cornovaglia, all’età di 89 anni, Le Carré sarebbe probabilmente diventato uno scrittore comunque, anche se non avesse militato nei servizi segreti britannici, dove pure aveva trovato materiale abbondante per i suoi romanzi. Sapeva costruire trame appassionanti, nelle quali ogni indizio poteva risolversi in una falsa pista, ma allo stesso modo sapeva esprimere felici sottigliezze psicologiche.
Il suo personaggio più noto, il dimesso eroe borghese George Smiley, merita di stare nella galleria dei grandi protagonisti di tutti i tempi, magari non sullo stesso piano di Robinson Crusoe o del capitano Achab, ma non troppo distante da Sherlock Holmes e dal James Bond originale, che Ian Fleming aveva dotato di una complessità solo di recente, e solo in parte recuperata nelle versioni cinematografiche. Più che il rivale di Fleming o dei suoi colleghi più giovani, da Frederick Forsythe a Ken Follett, Le Carré poteva essere considerato l’erede di Graham Greene. Erede riluttante, d’accordo, poco o nulla interessato all’elemento religioso in quanto tale, ma ugualmente incapace di raccontare una storia senza esplorarne le implicazioni morali.
Quello con cui era diventato celebre era una pseudonimo. Il suo vero nome era David John Moore Cornwell ed era nato a Poole, nel Dorset, il 19 ottobre 1931. Infanzia difficile, segnata dall’abbandono della madre e dalla figura ingombrante del padre violento e imbroglione (a lui è ispirato il romanzo La spia perfetta del 1986). E studi d’eccellenza, in compenso, grazie ai quali era diventato docente di letteratura tedesca a Eton. Nel 1959 era entrato alle dipendenze del Foreign Office e, una volta assunto l’incarico nella Repubblica democratica tedesca, era stato reclutato dall’MI6, seguendo il percorso di tanti altri intellettuali britannici. Detto altrimenti, aveva cominciato a scrivere di spie quando era lui stesso una spia. Derivava anche da qui il fascino dei suoi libri, nei quali si rispecchiavano le inquietudini e gli intrighi della Guerra fredda.
Il successo internazionale era arrivato nel 1963 con La spia che venne dal freddo, perfetto labirinto di geopolitica e doppio gioco all’ombra del Muro di Berlino, ma il suo vero capolavoro era La talpa, (1974), nel quale la posta saliva di livello: Smiley deve indagare su un infiltrato nei ranghi dei servizi segreti inglesi, sullo sfondo di un duello a distanza con i vertici del Kgb. È un thriller, non si discute, ma è anzitutto un romanzo nel senso più compiuto e addirittura tradizionale del termine. Contano i personaggi, ancora di più conta la rete di relazioni che corre tra loro, in un continuo ribaltamento fra inganno e disinganno.
Narratore in presa diretta di un mondo in tumultuosa evoluzione, Le Carré aveva dato la sua interpretazione della perestrojka con La Casa Russia nel 1989 e qualche anno più tardi, nel 1993, con Il direttore di notte aveva spostato la sua attenzione sulla criminalità internazionale pronta ad approfittare del vuoto causato dal crollo delle ideologie. Del 2001 è invece il suo romanzo più vicino alla visione di Greene, Il giardiniere tenace, con il quale l’azione si sposta in Africa. Il suo ultimo libro, La spia corre sul campo, è stato pubblicato lo scorso anno da Mondadori e sfrutta, una volta di più, molti elementi di attualità, con uno sguardo molto ravvicinato alla questione della Brexit. Europeista convinto, Le Carré non aveva mai nascosto la sua ostilità all’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, così come in passato non aveva esitato ad assumere più di una posizione controcorrente. Meno discreto di Smiley, in questo, ma non meno fedele al medesimo ideale di disincantato patriottismo.