venerdì 28 dicembre 2018
Nato a Gerusalemme il 4 maggio 1939, negli anni Sessanta Amos Oz era stato tra i primi a sostenere la “soluzione dei due Stati” per porre fine al conflitto israelo-palestinese
Lo scrittore israeliano Amos Oz (Ansa)

Lo scrittore israeliano Amos Oz (Ansa)

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Ad Amos Oz, morto oggi all'età di 79 anni, piaceva molto ascoltare le storie degli altri. Attitudine non rara in uno scrittore, ma che nel suo caso assumeva una connotazione particolare. Di impegno civile, senza dubbio, perché nel suo Paese, Israele, l’ascolto è già di per sé un atto politico. Ma anche di poesia o, meglio, di contemplazione del mistero che ogni essere umano non manca di rappresentare, non importa quanto stretta sia la vicinanza affettiva o addirittura la relazione di parentela. Per Oz, infatti, il mistero più grande era costituito dalla madre, la cui assenza domina incontrastata nel suo capolavoro, Una storia d’amore e di tenebra, apparso nel 2002 e tradotto con totale adesione da Elena Loewenthal l’anno seguente per Feltrinelli, la casa editrice che ha in catalogo l’opera dell’autore israeliano.

Oz è morto ieri a Gerusalemme, dove era nato il 4 maggio del 1939, quando lo Stato di Israele non esisteva ancora e la città era soggetta al Mandato britannico. La storia del Paese per lui era, alla lettera, storia di famiglia. Quella dei suoi genitori, anzitutto, Yehuda Klausner e Fania Mussman, originari entrambi della regione tra Polonia, Lituania, Bielorussia e Ucraina che corrispondeva al cuore dell’ebraismo mitteleuropeo. Si era conosciuti giovanissimi, mentre frequentavano le lezioni all’Università ebraica, presso la quale Yehuda tentò inutilmente di ottenere in seguito una posizione accademica. Dopo la nascita di Amos, intanto, Fania aveva cominciato a lottare contro la depressione che nel 1952 l’aveva spinta al suicidio: circostanza, questa, rimasta per molto tempo sconosciuta al figlio.

Un paio di anni dopo la morte della madre, in ogni caso, Amos lascia Gerusalemme per trasferirsi nel kibbutz di Hulda. Non si tratta soltanto dell’emancipazione dal rigido sionismo dei genitori a favore della visione più progressista sostenuta dai laburisti. I contrasti con il padre, già molto aspri, vengono sanciti dall’assunzione di un nuovo cognome, Oz, che in ebraico indica il coraggio o, meglio, la dote biblica della fortezza. Le foto di quel periodo ritraggono il giovane Amos alla guida di un trattore, con gli occhi chiarissimi e il sorriso nello stesso tempo disarmato e spavaldo.Il suo primo libro, La terra dello sciacallo, porta la data del 1965.

Nel 1968, quando ottiene un’importante affermazione internazionale con Michael mio (un romanzo che rimanda in maniera esplicita alla tormentata vicenda sentimentale dei genitori), Amos Oz ha già assunto un ruolo di rilievo nella vita pubblica israeliana. Nel 1967, infatti, è tra i primissimi a battersi per la soluzione dei due Stati, auspicando un compromesso per il quale continuerà a spendersi fino all’ultimo, a dispetto del mutare degli equilibri politici. «Per me il compromesso è sinonimo di vita – dichiarava nelle interviste – e il suo nemico non è l’idealismo, ma il fanatismo».

Contro il fanatismo è, non a caso, il titolo di uno dei suoi saggi più noti, dettato nei primi anni Duemila, quando il gioco delle reciproche intransigenze si stava facendo spietato. Ancora attualissimo, è un libro che si legge anche come testimonianza dell’impegno di cui Oz si era fatto carico con convinzione sempre maggiore a fianco di altri due grandi scrittori israeliani, Abraham Yehoshua e David Grossman. Insieme, si sono spesso espressi contro ogni inasprimento dei rapporti con la comunità palestinese. L’aperto contrasto di Oz rispetto alle decisioni prese dal premier Benjamin Netanyahu non ha impedito a quest’ultimo di esprimere cordoglio per la scomparsa di quello che ha voluto definire «un gigante letterario».

Vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali (dal Principe delle Asturie al Grinzane Bottari Lattes, dal Premio per la pace dei Librai tedeschi alla Legion d’Onore, senza dimenticare il Premio nazionale di Israele), Amos Oz è stato più volte sfiorato dal Nobel, che avrebbe coronato in modo più che ragionevole un’avventura umana e letteraria di ineguagliabile complessità e finezza. I suoi libri sono storie di Israele e sono, per questo, storie di famiglia. Moltissimi i titoli, distribuiti tra il microcosmo del kibbutz (si pensi a Una pace perfetta, ad Altrove, forse, ma anche ai racconti di Tra amici e di Scene dalla vita di un villaggio) e lo scandaglio storico (Il monte del cattivo consiglio è ambientato negli anni immediatamente precedenti la nascita dello Stato di Israele, mentre Tocca l’acqua, tocca il vento si concentra sulle persecuzioni naziste), tra l’analisi delle relazioni amorose (come in La scatola nera e Conoscere una donna ) e l’apparente divagazione favolistica (sorprendente, in questo senso, il clima evocato da D’un tratto nel folto del bosco).

Nel 2014, all’apice di una carriera ormai universalmente acclamata, Oz aveva consegnato ai lettori uno straordinario capolavoro tardivo, il romanzo Giuda, nel quale il tema del tradimento veniva esplorato alla luce del racconto evangelico. Era una scelta tutt’altro che prevedibile per un autore che si era sempre dichiarato agnostico, ma che non era mai rimasto insensibile al richiamo della sacralità radicata nelle esperienze fondamentali della vita: la nascita e la morte, l’amore e la perdita. Agiva, in questo, la memoria del testo biblico, alla quale Oz aveva reso omaggio in forma neppure troppo indiretta in Gli ebrei e le parole, il libro-conversazione scritto insieme con la figlia, la storica Fania Oz-Salzberger. È stata lei ad annunciare ieri, via Twitter, la scomparsa del padre: «Grazie a tutti quelli che lo hanno amato», ha scritto. Che è come dire: grazie a tutti quelli che hanno ascoltato le sue storie.

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