venerdì 6 luglio 2018
All’Orangerie una mostra mette a confronto il grande maestro dell’impressionismo con i suoi “eredi” d’Oltreoceano, che per primi ne riscoprirono il valore
Claude Monet, “Ninfee” 1920-1926

Claude Monet, “Ninfee” 1920-1926

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A quattordici o quindici anni Claude Monet si guadagnava da vivere come caricaturista e aveva la ferma convinzione di diventare artista. Il padre era disperato per quel figlio che non ne voleva sapere di seguire le vie ordinarie dalla società borghese. Lo racconta lo stesso Monet ormai avanti negli anni in un breve entretien con Thiébault-Sisson, che apparve il 27 novembre 1900 su “Le Temps”: «Non ho mai potuto, nemmeno nella più piccola infanzia, piegarmi a una regola. È da me stesso che ho appreso il poco che so». Si è fatto da solo, come si dice in questi casi. Anche come pittore. Il suo apprendistato con Boudin a Le Havre dura infatti appena sei mesi e poi – come ha scritto Denis Rouart parlando delle Ninfee – decide di trasferirsi a Parigi, dove può raffinare il suo talento sorgivo. Diventerà l’occhio di Dio in terra, colui che vede fin dove non è concesso ai comuni mortali. Un prodigio della natura dirà un altro della sua razza, Picasso. In visita alla mostra di Corot al Museo Marmottan, luogo deputato di Monet e delle tele che dipinse a Giverny, dopo aver rivisto alcuni suoi capolavori che hanno per tema quel giardino e le Ninfee, medito di andare all’Orangerie dove hanno allestito la mostra “L’abstraction américaine et le dernier Monet”.

L’occasione è data dal centenario della grande decorazione delle Nymphéas che occupa le due sale ellittiche dell’Orangerie. Davanti a un video che mostra Monet nel giardino di Giverny mentre lavora a un quadro di Ninfee, mi incanto a osservare lui che gira continuamente la testa verso il giardino e subito la rigira e deposita sulla tela un tocco di colore. È un movimento rapido, quasi rapsodico, come se prendesse appunti dalla natura; oppure è la verifica tocco su tocco che il colore incarni sulla tela un brano della natura che egli ha sposato chiudendosi in quel luogo lussureggiante. Ma è invece il movimento della sua immaginazione che tiene per così dire il punto, discendendo a una ta- le profondità che la superficie del quadro non corrisponde più a una immagine dal vero ma al suo superamento sul piano della contemplazione. E quando vediamo queste opere dell’ultimo decennio che si sciolgono in composizioni sempre più informali viene da chiedersi quanto Monet volesse giocare sul linguaggio pittorico, ovvero cercasse di ricreare una natura sempre più panica, ineffabile, fermentata in un coacervo di segni, filamenti, grovigli che ci danno sempre e invariabilmente la sensazione di essere dentro un pezzo di paesaggio che ha per noi, ma ancor prima per Monet, la consistenza di un grembo primigenio nel quale si torna per curarsi dalle mille ferite e distorsioni che il mondo ci infligge.

È forse eccessivo farne una regola, e allora prendiamola soltanto come intuizione: le svolte della pittura in Monet e con Monet cadono quasi sempre nei dintorni di una guerra. Quella del Settanta, dove la Francia perse con la Prussia e fu costretta a cedere Alsazia e Lorena; la Grande Guerra, riscatto dei francesi verso i tedeschi, ma anche vero maelström che, come disse all’epoca il filosofo Henri Bergson, cambiò la scala dei valori delle cose che contano; e la Seconda guerra mondiale, dove avviene la consacrazione internazionale dell’artista. A tutte e tre Monet non partecipò: nell’intervista con Thiébault-Sisson disse che si era appena sposato quando scoppiò la guerra del 1870 e non aveva nessuna voglia di farsi ammazzare, quindi espatriò a Londra e, come recita il luogo comune, scoprì una delle verità dell’impressionismo: anche le ombre sono colorate e cambiano sotto i riflessi del cielo e delle cose. La scoperta avvenne osservando i paesaggi innevati (ma l’aveva già notato Courbet dieci anni prima e lo scrisse in una delle sue lettere). Monet mancò anche la guerra del 1915-1918, perché ormai era troppo vecchio per combattere, e alla fine per celebrare la vittoria della Francia donò allo Stato due opere del ciclo dei salici piangenti e delle ninfee. Mancò, ovviamente, anche la Seconda guerra mondiale perché era già morto e qui il suo nome tiene banco per la riscoperta che la critica americana ne fece dopo il 1945. L’ultimo periodo pittorico incentrato sulle Ninfee sembra infatti anticipare di due decenni l’informale post bellico.

La mostra che è in corso all’Orangerie di Parigi indaga quest’ultimo passaggio. “Una storia franco-americana”, come recita il titolo della presentazione in catalogo di Laurence des Cars e Cécile Debray. Fatto curioso, questo destino internazionale è lo stesso che l’America garantirà dalla metà degli anni Cinquanta a un altro francese, Marcel Duchamp, a lungo misconosciuto in Francia, almeno fino alla grande mostra del 1977. Monet, dopo la morte, avrà una fase ventennale di oblio, identificato con lo spontaneismo impressionista che, scrivono i due curatori, contrasta col ritorno all’ordine dei realismi ideologici e con l’astrazione geometrica e costruttivista. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si manifesti un peccato di razionalismo, argomento tipico dei francesi. Sarà l’interesse della pittura americana per l’ultimo Monet, grazie anche all’opera di promozione nel mondo condotta dalla gallerista parigina Katia Granoff, a riaprire il discorso vedendo nel pittore francese il precursore dell’informale, che in Europa ha una forte valenza esistenziale e nichilista, mentre oltre Oceano Monet viene esaltato per l’analogia – colta da William Seitz nel 1955 – col panteismo naturalista di Emerson e Thoreau. Clement Greenberg aveva in un primo momento rilanciato per Monet la critica di Cezanne agli impressionisti, ovvero la mancanza di “struttura tridimensionale”.

Ma il giudizio cambia quando afferra tutta la novità prodotta dal crogiolo pittorico di Giverny: «Come Debussy presenta spesso la semplice texture del suono come forma forma della musica, così l’ultimo Monet offre la semplice texture del colore come forma adeguata della pittura ». Così nel 1954 Greenberg pone Monet di fronte a Clifford Still e Barnett Newman; e alle ninfee guarda anche la linea dell’“impressionismo astratto'” di Philip Guston, Sam Francis, Riopelle. Sarà Leo Steinberg nel 1956 a dettare il confine della piena consacrazione di Monet in America scrivendo che è «più vicino a Mondrian che a Corot». Un bel salto mentale, non c’è che dire. L’anno dopo Greenberg concluse che «le ninfee di Monet ci ricordano che i nostri canoni di eccellenza sono provvisori ». Da Guston a Tobey, da Rothko a Pollock, da Joan Mitchell a De Kooning, la mostra dell’Orangerie celebra una idea che ormai è entrata da decenni nei pensieri comuni della critica: Monet precursore dell’informale e dell’espressionismo astratto americano, antico maestro europeo di una pittura che vuole ritessere il legame originario con la cultura di cui si sente una continuazione e variazione. Questa mostra non sarà un modo per ipervalorizzare Monet (che è un genio indiscusso del suo tempo), una debolezza tipica dei francesi quando arrivano in ritardo, oppure è la visione acritica di un fenomeno che, dopo aver ristabilito l’assetto delle cose, andrebbe rivisto criticamente?

Penso che Monet abbia battuto negli ultimi dieci anni di vita una strada solitaria, nuova, ma anche molto personale, che non aveva come prima intenzione una rivoluzione del linguaggio ma una risposta al limite esistenziale cui la sua pittura poteva tendere e Greenberg, quando era ancora critico verso Monet, lo intuì chiaramente e scrisse che egli aveva «l’ambizione di notare, registrare e rendere permanenti gli aspetti più transitori della natura», ambizione, dice, extraestetica «che ha a che fare più con la scienza che con la pittura». Ma sbaglia mira: quel “minimalismo” praticato attraverso la materialità del colore, punto per punto, che si comprende vedendo il breve film di Monet mentre dipinge a Giverny, è la sua confessione di aver raggiunto il “momento giapponese” dove pittura e natura sono u cosmo solo. E dunque l’unica scienza che si manifesta è quella sapienziale che reintegra l’uomo nel dinamismo vitale dell’universo. Ma questo è assai meno americano e più nell’ordine spirituale dell’Oriente.

Parigi, Orangerie
L’ABSTRACTION AMÉRICAINE ET LE DERNIER MONET
Fino al 20 agosto

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