martedì 5 giugno 2018
Diversi pensatori – credenti e no – portano al centro della loro riflessione lo scandalo del cristianesimo per capire il presente. Li ricapitola un saggio di Albarello
Johann-Baptist Metz, fra i fondatori della rivista "Concilium"

Johann-Baptist Metz, fra i fondatori della rivista "Concilium"

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Si può elaborare un discorso filosofico a partire dal concetto di misericordia? Come secoli fa fece san Tommaso sviluppando quello di natura (“Gratiam naturam non tollit, sed perficit”), nell’epoca della morte di Dio – ma sarebbe più corretto dire della morte dell’uomo se l’orizzonte della trascendenza viene eliminato – le basi per una nuova umanizzazione, dinanzi ai rischi di uno strapotere dell’economia e della tecnologia, possono ritrovarsi appunto nell’affermazione della logica del dono e del perdono. Che non è altro che quella del Vangelo. Lo ricorda papa Francesco citando la Lettera di Giacomo: «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio». Una filosofia dunque che non prescinda dal cristianesimo? Può sembrare paradossale, ma è proprio dai pensatori non credenti che viene la richiesta.

Dopo le immense tragedie del secolo scorso, nessun filosofo può più permettersi di snobbare il lascito evangelico, e di conseguenza di ignorare l’eccesso di sofferenza che ancor oggi permane nel mondo, che vediamo in noi e davanti a noi. Ce lo fa capire un libro appena uscito da Queriniana, «La grazia suppone la cultura» (pagine 192, euro 14,00), scritto da Duilio Albarello, che insegna teologia a Fossano e Milano. Il titolo è virgolettato perché riprende una frase della Evangelii Gaudium, che a sua volta riscrive il noto assioma dell’Aquinate: da Metz a Žižek, da Milbank ad Habermas, da Taylor a Beck, da Theobald alla Kristeva, lo sforzo del volume è quello di evidenziare una ricerca comune nel pensiero di alcuni protagonisti della cultura contemporanea. Credenti e non. A partire da Johann-Baptist Metz, noto per aver rimesso a fuoco il concetto di “teologia politica”. Nelle sue opere più recenti, come Memoria passionis (Queriniana 2009), il teologo e gesuita tedesco ambisce a riformulare il discorso su Dio «tramite la sua esposizione alla prova radicale, costituita dalla sofferenza patita dall’innocente e dalla vittima dell’ingiustizia». Si tratta di assumere uno sguardo apocalittico che porta a cercare “le tracce di Dio nel volto degli uomini sofferenti, per dare al loro grido un ricordo e al loro tempo un termine”. Metz insomma sottolinea il compito della Chiesa come autorità critico-profetica nei confronti della società.

Idea condivisa da Slavoj Žižek, uno dei filosofi più presenti sulla scena contemporanea, che da non credente e neomarxista qual è, a partire dallo studio di san Paolo giunge a proporre una terza via fra liberalismo e fondamentalismo, che chiama «materialismo cristiano apocalittico». La visione paolina si fonda su un nucleo agapico che oltre a una forte componente spirituale secondo il pensatore sloveno presenta una fortissima ansia di rinnovamento politico. Per Žižek il cristianesimo diventa una contro-etica, una forza traumati- co-profetica che destabilizza l’ordine sociale esistente. In nome di che cosa? Del senso di comunità. Scrive infatti Žižek in Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle grazie, 2011): «Rifiutando di ripagare il male con il male, vivendo in pace e condividendo i beni, la Chiesa testimonia del fatto che esiste un’alternativa a una società basata sulla violenza o sulla minaccia della violenza». Alla sua visione materiale e politica del cristianesimo che viene depurato del suo aspetto spirituale, si contrappone John Milbank, che con Žižek ha dialogato nel libro San Paolo Reloaded ( Transeuropa, 2012). Per il pensatore anglicano la terapia di un materialismo evangelico non è abbastanza radicale per contrastare in modo efficace il «paganesimo del progresso» su quale si basano il dispositivo economico- politico e l’apparato tecnoscientifico del neoliberismo. Anche Milbank parla di «contro-etica » e persino di «contro-ontologia», ma proprio in forza di una logica universalistica che implica una fede che va oltre l’immanenza. Il paradosso dell’Incarnazione porta con sé la necessità di un dono incondizionato e gratuito che è ancora un modello per l’oggi, ma che è impossibile sganciare dalla trascendenza. Dice Milbank: «Solo un cristianesimo più benevolente, più festivo, può sperare di ristabilire una cristianità rinnovata e ora davvero globale; messo a confronto con le aporie del liberalismo secolare, può ancora in futuro avanzare la pretesa di essere l’autentico illuminismo e l’autentico romanticismo».

Una prospettiva cui sembra concordare Julia Kristeva, nel suo sforzo di disegnare la possibilità di rifondazione dell’umanesimo proprio unendo il meglio delle due tradizioni, quella illuminista e quella ebraico-cristiana. Per la filosofa francese non credente, di origine bulgara, è impossibile negare «il bisogno di credere» che ancora anima l’uomo contemporaneo. Dal suo punto di vista, Charles Taylor contrasta l’opinione scientista spesso dominante in Occidente che vede la credenza religiosa come una condizione di immaturità e di ignoranza, se non addirittura irrazionale. A questa posizione secolaristica il filosofo canadese non oppone il rigetto della civiltà dei diritti e della democrazia, ma un’opposizione leale al sistema moderno e postmoderno, per liberarlo dalle sue aporie grazie al riferimento al Vangelo in quanto capace di ispirare soluzioni più degne dell’uomo. «Dobbiamo trovare – si legge nel saggio L’età secolare (Feltrinelli, 2009) – il centro della nostra vita spirituale al di là del codice, più in profondità del codice, in reti di cura vivente, che non devono essere sacrificate al codice, e che anzi devono persino sovvertirlo». Giustamente Albarello nella sua disamina parla del tentativo di disegnare una «modernità cattolica», che «nella distinzione senza dissociazione tra il secolare e il religioso non si prefigga di soffocare il “respiro occidentale”». Egli poi mette in luce le analogie fra le analisi dei pensatori tedeschi Habermas e Beck con quelle elaborate dai teologi – ma anche dal Papa – di fronte all’individualismo imperante che rende assai difficoltosa la ricerca di un bene condiviso. E si affaccia, nella formulazione del teologo francese Christoph Théobald, la visione di una «mistica della fraternità », allo scopo di svelare in ogni essere umano il sensus Regni, la disponibilità a far prevalere le risorse di partecipazione e solidarietà verso gli altri.

Concetto che sembra far proprio anche il pensatore francese Jean-Luc Marion, erede di Lévinas e Ricoeur, che nel saggio Credere per vedere (Lindau, 2012) scrive: «La ragione si è limitata finora a interpretare il mondo, quindi a trasformarlo in oggetti che essa può dominare. Sarebbe ora di iniziare a rispettarlo. Rispettare il mondo significa vedere, dunque guardare in faccia il volto dell’altro uomo». Una prospettiva che trova d’accordo lo stesso autore di questo volume, che ha voluto non solo ripercorrere le posizioni dei principali intellettuali contemporanei credenti e non credenti, ma sviluppare una critica serrata verso un cattolicesimo che si presenta lontano dalla vita quotidiana. Un cattolicesimo che Albarello definisce «tascabile, ossia troppo sicuro della sua dottrina granitica per accorgersi della complessità spirituale e sociale in cui abita, oltre che ripiegato sull’intimismo spiritualistico di certe pratiche devozionali». Un cattolicesimo “senza carne”, lontano dalla spiritualità dell’engagement di Emmanuel Mounier.

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