A 16 anni giocava da par suo in serie A ed esordiva con la maglia azzurra: era il 14 settembre 1966, ad Augsburg, contro la Germania Ovest. A vent’anni collezionava la sua prima Coppa Campioni (79-74 contro l’Armata Rossa) ed era già una colonna della valanga gialloblù varesina e della Nazionale, tanto bravo da poter competere con i pivot Usa. Dino Meneghin sta ai canestri azzurri forse come l’intera squadra dei Mondiali del 1970 sta al calcio. Un campione che ha segnato un’epoca sui parquet di tutto il mondo e che ha appena voltato pagina, con la recentissima elezione a presidente della Federbasket. In carriera SuperDino, che è riuscito anche a giocare una match di campionato contro suo figlio Andrea, prima di appendere a 44 anni le scarpette al chiodo, ha collezionato solo numeri da primato: 271 partite in Nazionale (un oro europeo, un argento olimpico nel 1980 a Mosca); oltre 800 partite di club e 12 scudetti divisi fra Varese e Milano, 7 coppe Campioni, 2 coppe delle Coppe, 6 Coppe Italia, la Korac, 4 Intercontinentali. Oggi Meneghin è il volto del basket tricolore nel mondo ed è, soprattutto, il nuovo presidente federale. Un uomo di sport, non un “burocrate”, a capo del secondo sport italiano di squadra, sebbene la disciplina della palla a spicchi non stia certo vivendo in Italia il più roseo momento di una novantennale storia.
La Nazionale non brilla e in Serie A si parla pochissimo italiano, poiché il prodotto indigeno latita. Con quali decisioni e politiche risollevare le sorti del nostro basket?«Intervenire sui punti più critici, salvando quel che è da salvare, stabilendo chi si dovrà occupare di che cosa e capendo come e in che tempi muoversi. Bisognerà prima di tutto parlare del settore giovanile, di come fare reclutamento e del lavoro da svolgere da parte degli allenatori per accrescere il numero di praticanti e restituire popolarità al nostro basket. Non posso però con un tocco di bacchetta magica e da solo mettere a posto le cose. Tutte le componenti dovranno fare la propria parte: società, arbitri, comitati regionali, giocatori. Il nostro è un sistema complesso, con professionisti e dilettanti, perciò, con pazienza e senza far confusione, bisognerà riuscire a coniugare i vari interessi».
Il rapporto con le Leghe e l’associazione dei giocatori italiani... «Un punto critico che andrà risolto in 2-3 mesi al massimo, prestando attenzione alle esigenze delle società ma anche agli spazi per i nostri giocatori, che devono pur meritarsi il posto. Se ciascuno rimane fermo sulle proprie posizioni, non capendo i problemi economici del presente, non se ne esce. Insomma, occorre trovare la quadratura del cerchio».
E se qualche giocatore rifiutasse la convocazione in azzurro? «Dovrebbe farlo solo per gravissimi motivi. Avremo l’ultimo torneo per andare agli Europei, in agosto, per un solo posto a disposizione, e non qualificarci sarebbe deleterio. La Nazionale è la squadra cui tutti devono tendere e ambire, imprescindibile punto di riferimento».
Lei è stato il testimonial per eccellenza del basket giovanile, quindi si presume che continuerà a guardare con cura all’universo dei giovani e alle scuole... «Non dico che lo sport sia la panacea di tutti i mali, ma di certo ti insegna a stare al mondo: è una continua gara con te stesso in cui devi porti nuovi obiettivi contando sulle tue forze per raggiungerli, ma devi anche imparare a stare con gli altri lavorando insieme sulle proprie debolezze. Spero che lo sport divenga sempre più importante nella cultura dei nostri giovani».
La sua carriera è stata incredibile, ma anche lei è incappato in qualche bruciante sconfitta. Ricorda di più le vittorie o le sconfitte? «Le vittorie. Anche se le sconfitte ti insegnano molto di più. Quando, dopo, ti ritrovi da solo e capisci dove hai sbagliato, hai già compiuto un buon lavoro di crescita».