mercoledì 18 febbraio 2009
L’ex fuoriclasse e nuovo presidente federale: «La crisi esiste, io non ho certo la bacchetta magica Serve più spazio in campo per i nostri migliori talenti e nessuno può permettersi di snobbare la Nazionale»
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A 16 anni giocava da par suo in serie A ed esordiva con la maglia azzurra: era il 14 set­tembre 1966, ad Augsburg, contro la Germania Ovest. A vent’anni colle­zionava la sua prima Coppa Cam­pioni (79-74 contro l’Armata Rossa) ed era già una colonna della valan­ga gialloblù varesina e della Nazio­nale, tanto bravo da poter compete­re con i pivot Usa. Dino Meneghin sta ai canestri az­zurri forse come l’intera squadra dei Mondiali del 1970 sta al calcio. Un campione che ha segnato un’epoca sui parquet di tutto il mondo e che ha appena voltato pagina, con la re­centissima elezione a presidente del­la Federbasket. In carriera SuperDi­no, che è riuscito anche a giocare u­na match di campionato contro suo figlio Andrea, prima di appendere a 44 anni le scarpette al chiodo, ha col­lezionato solo numeri da primato: 271 partite in Nazionale (un oro eu­ropeo, un argento olimpico nel 1980 a Mosca); oltre 800 partite di club e 12 scudetti divisi fra Varese e Milano, 7 coppe Campioni, 2 coppe delle Coppe, 6 Coppe Italia, la Korac, 4 In­tercontinentali. Oggi Meneghin è il volto del basket tricolore nel mondo ed è, soprattut­to, il nuovo presidente federale. Un uomo di sport, non un “burocrate”, a capo del secondo sport italiano di squadra, sebbene la disciplina della palla a spicchi non stia certo viven­do in Italia il più roseo momento di una novantennale storia.  La Nazionale non brilla e in Serie A si parla pochissimo italiano, poiché il prodotto indigeno latita. Con qua­li decisioni e politiche risollevare le sorti del nostro basket?«Intervenire sui punti più critici, sal­vando quel che è da salvare, stabi­lendo chi si dovrà occupare di che cosa e capendo come e in che tem­pi muoversi. Bisognerà prima di tut­to parlare del settore giovanile, di co­me fare reclutamento e del lavoro da svolgere da parte degli allenatori per accrescere il numero di praticanti e restituire popolarità al nostro basket. Non posso però con un tocco di bac­chetta magica e da solo mettere a po­sto le cose. Tutte le componenti do­vranno fare la propria parte: società, arbitri, comitati regionali, giocatori. Il nostro è un sistema complesso, con professionisti e dilettanti, per­ciò, con pazienza e senza far confu­sione, bisognerà riuscire a coniuga­re i vari interessi». Il rapporto con le Leghe e l’associa­zione dei giocatori italiani... «Un punto critico che andrà risolto in 2-3 mesi al massimo, prestando attenzione alle esigenze delle società ma anche agli spazi per i nostri gio­catori, che devono pur meritarsi il posto. Se ciascuno rimane fermo sul­le proprie posizioni, non capendo i problemi economici del presente, non se ne esce. Insomma, occorre trovare la quadratura del cerchio». E se qualche giocatore rifiutasse la convocazione in azzurro? «Dovrebbe farlo solo per gravissimi motivi. Avremo l’ultimo torneo per andare agli Europei, in agosto, per un solo posto a disposizione, e non qualificarci sarebbe deleterio. La Na­zionale è la squadra cui tutti devono tendere e ambire, imprescindibile punto di riferimento». Lei è stato il testimonial per eccel­lenza del basket giovanile, quindi si presume che continuerà a guarda­re con cura all’universo dei giovani e alle scuole... «Non dico che lo sport sia la pana­cea di tutti i mali, ma di certo ti in­segna a stare al mondo: è una con­tinua gara con te stesso in cui devi porti nuovi obiettivi contando sulle tue forze per raggiungerli, ma devi anche imparare a stare con gli altri lavorando insieme sulle proprie de­bolezze. Spero che lo sport divenga sempre più importante nella cultu­ra dei nostri giovani». La sua carriera è stata incredibile, ma anche lei è incappato in qual­che bruciante sconfitta. Ricorda di più le vittorie o le sconfitte? «Le vittorie. Anche se le sconfitte ti insegnano molto di più. Quando, do­po, ti ritrovi da solo e capisci dove hai sbagliato, hai già compiuto un buon lavoro di crescita».
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