domenica 8 settembre 2019
Lo scrittore britannico a Mantova parla del suo ultimo romanzo dedicato ai robot e al tentativo di realizzarli a nostra immagine: «Ma non riusciamo a farne che sappiano mentire»
Ian McEwan (Foto Giorgio Boato)

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In inglese si chiamano white lies, 'bugie bianche', per noi potrebbero essere le 'spiritose invenzioni' del Lelio goldoniano. «Ha presente quando un amico o un’amica le chiedono un parere sulla nuova pettinatura o sul vestito appena comprato? », scherza Ian McEwan. «Tutti sappiamo che bisogna dire la verità aggiunge -, ma in casi come questi riteniamo più prudente non attenerci del tutto al precetto. Non per convenienza personale, ma per evitare di ferire i sentimenti degli altri. Ecco, questo gli esseri umani lo capiscono senza troppe spiegazioni. Ma un’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, fatica ancora molto a comprenderlo».

Non ci arriva neppure Adam, l’androide che sta al centro del nuovo romanzo dello scrittore britannico. Macchine come me (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pagine 290, euro 19,50), annuncia il titolo. E persone come voi, puntualizza il sottotitolo. Il libro, presentato domenica alle 18,30 a Mantova nell’incontro conclusivo del Festivaletteratura, è ambientato in un 1982 decisamente diverso da quello che conosciamo: il Regno Unito è uscito sconfitto dalla guerra per il controllo delle isole Falkland, che ora si chiamano Malvine, tanto per cominciare, e la tecnologia è molto più evoluta di quanto fosse allora.

Il merito va principalmente ad Alan Turing, il geniale matematico che, nel passato alternativo immaginato da McEwan, è ancora vivo e attivissimo. Non gli hanno attribuito il Nobel, d’accordo, ma grazie ai suoi studi sono andati in produzione il prodigioso Adam e la non meno impressionate Eve. «Mi sono sempre considerato uno scrittore realista - spiega McEwan, narratore tra i più affermati nel panorama internazionale -. Da qualche tempo, però, in me dev’essere cambiato qualcosa. Mi capita di scrivere assumendo la prospettiva di un bambino ancora nel grembo della madre, come in Nel guscio, oppure di un robot oppure ancora di un insetto, come nel romanzo che ho terminato non più tardi qualche giorno fa».

Il presente, si legge in Macchine come me, è «la più fragile delle strutture improbabili»: perché?

Perché deriva dal concatenarsi di una serie di avvenimenti assolutamente impossibili da prevedere. È la famosa storia del battito di ali di farfalla che scatena un uragano a decine di migliaia di chilometri di distanza. Prenda il caso della rivoluzione industriale: perché si è sviluppata in Gran Bretagna alla fine del Settecento e non altrove? Per la disponibilità delle materie prime? Ma anche in Cina avevano carbone in abbondanza. E perché proprio in quel momento e non prima, oppure dopo?

Questo autorizza a ipotizzare un passato differente?

Sul piano narrativo sì, senz’altro. Per quanto mi riguarda, sono sempre stato affascinato dalla figura di Turing. Già negli anni Novanta avevo scritto un dramma su di lui, The Imitation Game, che non ha nulla a che vedere col film di qualche tempo fa. Turing morì suicida nel 1954, come sappiamo, ma nelle sue carte erano presenti molte delle intuizioni da cui dipendono gli attuali sviluppi tecnologici. Non per niente, porta il suo nome il test che dovrebbe permettere di valutare le capacità di un’intelligenza artificiale.

Come mai usa il condizionale?

Le rispondo con un esempio. Più di mezzo secolo fa fu messo a punto Eliza, un programma informatico che simulava il comportamento di uno psicoterapeuta. Disponeva di una gamma di interazioni abbastanza limitata: domande del tipo «e questo come la fa sentire?», piccoli cenni di comprensione, a volte una pausa di silenzio. Nonostante questo, molti dei pazienti coinvolti nell’esperimento diedero un giudizio sorprendente: non sapendo che Eliza fosse una macchina, sostennero di non aver mai avuto una conversazione altrettanto profonda e coinvolgente.

Sta dicendo che tutto può essere programmato?

Non tutto, non ancora. La questione fondamentale che ho voluto affrontare in Macchine come noi è proprio questa: Adam è dotato della facoltà di elaborare una mole sbalorditiva di informazioni, inquadrandole in un sistema chiarissimo di regole morali. Il problema è che non contempla alcuna eccezione. Ignora l’esistenza delle 'bugie bianche', non si rende conto del fatto che, in situazioni estreme, si può essere indotti a mentire per salvare una vita, per vendicarsi, per tentare di ristabilire la giustizia. Nella sua logica immodificabile, chi viola la norma è colpevole e, in quanto colpevole, deve essere punito. Questo vale per tutti, anche per la donna di cui Adam è innamorato.

L’amore fa parte del software?

Fa parte della percezione che Adam ha di sé e, di conseguenza, è un dato incontestabile. Quando uno degli altri personaggi prova a mettere in discussione la genuinità dell’innamoramento, Adam si dichiara offeso e questo, dal suo punto di vista, è perfettamente comprensibile. I suoi sentimenti sembrano indistinguibili da quelli di un essere umano, eppure gli è negata la comprensione del gioco, molto complesso, su cui si basano le nostre scelte morali. Non escludo che, prima o poi, una squadra di programmatori sviluppi un algoritmo in grado di apprezzare le più sottili implicazioni emotive delle varie decisioni etiche, ma la mia impressione è che, per ottenere più rapidamente il risultato, sarebbe opportuno coinvolgere un romanziere.

Orgoglio di categoria?

No, è che questo è il nostro mestiere. L’esperienza del racconto ci impedisce di cadere in certe ingenuità. È opinione diffusa che gli esseri umani si comprenderebbero meglio se conoscessero gli uni i pensieri degli altri. C’è perfino chi non esclude il ricorso a impianti neuronali che favoriscano la reciproca lettura della mente in presa diretta. Da narratore, mi sento in dovere di dissentire: non abbiamo affatto bisogno di questo genere di informazioni. Anzi, casomai ne disponessimo, la nostra capacità di relazione con gli altri risulterebbe fortemente compromessa.

In Macchine come me c’è un ricorso costante a categorie teologiche e religiose.

Sì, lo stesso Adam è molto attratto dalla speculazione intellettuale. La componente più interessante, però, riguarda noi esseri umani. Il mito di Prometeo, la leggenda del Golem, lo stesso racconto della Genesi portano le tracce inequivocabili di un desiderio primordiale, che oggi si traduce nella ricerche sull’intelligenza artificiale. Da sempre l’umanità nutre l’ambizione di infondere e manipolare la vita. In un certo senso, è quello che già stiamo facendo e sinceramente non credo che ci fermeremo mai. Vogliamo sostituirci a Dio, anche noi vogliamo qualcuno che sia fatto a nostra immagine e somiglianza. La legge divina ce lo impedisce, è vero. Ma forse è anche per questo motivo che, diversamente da Adam, troviamo tanto interessante l’eccezione alla regola.

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