Lo storico dell'alimentazione Massimo Montanari - M9
Rito, politica, vettore di mutazioni sociali, elemento identitario: il cibo è tante cose, e forse nemmeno più primariamente alimentazione. Al rapporto, viscerale, degli italiani con il cibo, al mondo che gli gira intorno, all’immaginario, all’industria e alla cultura è dedicata la mostra “Gusto! Gli italiani a tavola 1970-2050”, allestita fino al 25 settembre a M9, il Museo del ’900 di Mestre. L’arco cronologico si appoggia da una parte al passaggio del nostro paese dalla fame alla sazietà e all’affermarsi di trasformazioni sostanziali (basti solo pensare alla cucina modulare e ai surgelati, allo sviluppo della ristorazione) e dall’altra a un futuro non lontano fondato sulla sintesi sempre più stretta tra cibo, tecnologia e sostenibilità. La tavola degli italiani diventa allora il campo per raccontare un’intera società. Ne parliamo con Massimo Montanari, tra i più importanti storici dell’alimentazione e curatore con Laura Lazzaroni della mostra.
Professore, oggi si parla molto di cibo e di cucina, voi però avete scelto “gusto”. Effettivamente i tre vocaboli dicono cose molto diverse…
«Gusto comprende una sfera di significati direttamente connessi con la cultura e, da medievista, aggiungo questo è vero nella accezione di gusto affermatasi nell’età moderna. Nel Medioevo gusto era qualcosa di naturale, di innato: de gustibus, si diceva, non si discute. Con la modernità si diffonde un’accezione che implica un apprendimento attraverso valori estetici ed etici. In ogni caso “gusto”, a mio avviso, di tutti termini afferenti al mangiare è quello che esprime meglio l’interazione tra soggetto e oggetto, mangiante e mangiato. Quando parliamo di cucina parliamo di tecniche, mentre con cibo intendiamo la materia prima o il risultato. Nel gusto invece si attiva il pregresso di storia, pensieri e sensazioni del soggetto, ma sempre e solo in presenza dell’oggetto. Ecco perché ogni società sviluppa gusti propri, come veri e propri attributi culturali».
In cosa consiste il gusto italiano, a fronte di una cucina estremamente diversificata a livello locale?
«Il gusto italiano è un paradosso perché si identifica con un sentimento. È il gusto del rapporto con il cibo, che si declina poi in modo diverso a seconda dei luoghi, dei contesti famigliari e comunitari. Si dice che la cucina italiana non esista, ed è così se la intendiamo come omologazione e omogeneità. Eppure uno sguardo dall’alto individua subito un gusto del prodotto e del luogo che unisce tutti gli italiani. Lombardi o siciliani, abruzzesi o liguri si riconoscono in un rapporto con il cibo passionale e culturalmente molto definito: pensiamo soltanto a quanto discutiamo sulle ricette. Questa propensione, anche al litigio, indica una attitudine al confronto. Non solo la lingua letteraria e l’arte ma anche il cibo ha fornito agli italiani un’appartenenza nazionale culturale molto prima di quella politica. I ricettari rinascimentali ne sono una testimonianza: nelle cucine delle corti del Cinquecento c’era una collezione di tanti “luoghi” gastronomici diversi, che venivano però percepiti come italiani. Certo, all’inizio la circolazione dei prodotti e dei sapori era ristretta alle classi privilegiate, ma poi è passata a tutta la società».
Quindi uno scambio che ha funzionato anche in senso “verticale”?
«L’integrazione tra mondo contadino e mondo aristocratico e poi borghese è più tipica dell’Italia che di altri paesi ed è perdurata. Accade anche oggi, ad esempio con la risalita dei prodotti spontanei dei campi alla tavola: un fenomeno internazionale dell’alta cucina, è vero, ma su cui la cultura italiana ha carte forti da spendere perché ha sempre valorizzato erbe e verdure, un tratto distintivo insieme alla centralità dei farinacei. Non a caso oggi molti chef ormai hanno un orto personale».
Da questo punto di vista non c’è il rischio di una gentrificazione del cibo?
«Il rischio c’è, ma bisogna dire che l’appiattimento della cucina popolare, a causa della scarsa disponibilità economica e dell’industrializzazione del cibo, sarebbe avvenuto comunque. Che a livello di alta ristorazione si riscopra e si reinventi una pratica popolare e antica, è cosa positiva: con la possibilità che, come sta accadendo, ritorni con una nuova cognizione nelle cucine di casa. Dopo tutto oggi sono in molti a coltivare erbe aromatiche sul balcone».
La circolazione oggi si è allargata: anche grazie ai flussi migratori, assistiamo all’ingresso stabile di elementi di cucine lontane dentro quelle italiane.
«Quello che stiamo definendo come gusto italiano non è immutabile nel tempo. Se torniamo al Rinascimento, io non ho dubbi nel dire che in questa circolazione e varietà c’è un gusto italiano: ma i “gusti”, nel senso letterale del termine, sono radicalmente diversi da quelli di oggi. Nei testi di allora si trova la pizza napoletana, ma la riconosciamo dolce e con ingredienti diversi, tra scomparsi e mancanti: eppure è sempre lei. I cambiamenti attuali, inevitabili, chiamano in causa il tema dell’inserimento del gusto italiano nella globalizzazione. Se diventa omologazione, allora non sarà più il gusto italiano come si è manifestato nei secoli. Ma se è contatto con culture, prodotti, sapori, tecniche allora può accordarsi con il gusto italiano delle diversità. Ma devo dire che gli scenari sono incerti».
Non pare assurdo definire la pasta al pomodoro come un vero piatto nazionale. Se la creazione di uno stato unitario è stato un processo da nord a sud, si può dire che la cultura gastronomica ha operato una unificazione a partire da sud?
«In questa unificazione culinaria, nella quale la cucina italiana è il risultato non della somma ma della moltiplicazione delle realtà locali, c’è stato anche un moto da nord a sud, ma è oggettivo che da sud a nord sia stato molto più forte. Ma la scena è comunque complessa. Il fatto che il più grande industriale conserviero, Cirio, sia un torinese che lavora a Napoli, la dice lunga. C’è stato anche un investimento politico: nel momento in cui il settentrione si è annesso il meridione ne ha assunto su di sé i valori culturali e si è sentito responsabilizzato a diffonderli come carattere nazionale. Lo sviluppo dell’industria ha prodotto omologazione, certo, eppure tutto questo non ha mai cancellato l’interesse degli italiani per il prodotto locale: si fa presto a dire pomodoro… È la passione atavica degli italiani per il particolare. Che può essere un problema ma anche una risorsa».
Prima della società di massa, i momenti sacri o forti della vita comunitaria e famigliare erano legati a una ritualità e a una differenziazione del cibo, con prodotti e preparazioni costose e abbondanti anche tra i ceti più popolari. Le trasformazioni economiche e sociali hanno di fatto azzerato le differenze. Il legame del cibo con il rito resiste in altro modo?
«È una domanda difficile. Penso che il legame con il rito, che può anche avere una dimensione sacrale, di per sé si stia dissolvendo. Ma credo che si possa recuperare su un altro piano. Penso alla ritualità conviviale. Siamo abituati a pensare alla convivialità opponendo il festivo contro il feriale. Si può abbassare il livello di questo discorso senza perderlo, anzi trasferendolo sulla quotidianità. Se usciamo da questa idea sacrale, rituale, importante, vediamo che la convivialità esiste ancora nella semplicità. È un discorso che esce spesso con i miei studenti a Bologna. Valorizzare il momento del caffè con gli amici, per esempio, è un modo facile per mantenere a un livello semplice questi rapporti, di tipo anche sacrale, legati al consumo del cibo. Non dimentichiamolo, mangiare è un gesto di relazione».