martedì 23 ottobre 2012
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​Novant’anni fa, il 28 ottobre 1922, ebbe luogo la Marcia su Roma. Un’ondata di ventiseimila camicie nere si riversò sulla Capitale. Si trattò di un moto insurrezionale senza precedenti che re Vittorio Emanuele III scelse di non reprimere in modo cruento, per non innescare una guerra civile dagli esiti imprevedibili. Il sovrano, anzi, voltò le spalle allo Statuto, e risolse a sorpresa la crisi del ministero in carica, guidato dal liberale giolittiano Luigi Facta, conferendo a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. Le giornate di fine ottobre del ’22 segnarono indubbiamente uno strappo alla prassi e alla legalità costituzionale. Per quanto l’atteggiamento duttile del monarca abbia contribuito ex post a mascherarne le connotazioni rivoluzionarie e antisistema, la Marcia su Roma fu un putsch in grande stile, che ebbe un lungo periodo di incubazione politica e di preparazione tecnica. Il re agì con acrobatica spregiudicatezza, riuscendo a inalveare ciò che era, a tutti gli effetti, un atto rivoluzionario, convertendolo in moneta legale immediatamente spendibile. In pratica riuscì, ipso facto, a costituzionalizzare l’insorgenza di un movimento eversivo, elevandola a simbolo stesso del lealismo monarchico. Del resto, che la Marcia su Roma fu un evento rivoluzionario, e non una parata da operetta, lo conferma la storiografia. Come ha scritto Curzio Malaparte nel suo libro Tecnica del colpo di Stato, si trattò di un golpe in puro stile leninista-trotzkista, fondato sul controllo dei centri di potere tecnologico e delle comunicazioni, con l’occupazione di questure e prefetture, di centrali telefoniche e snodi ferroviari. Mussolini affidò la regia operativa della marcia a un quadrumvirato, formato da Michele Bianchi, Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi, incaricati di coordinare i movimenti dei fascisti convergenti su Roma. Ma senza l’incitamento di Margherita Sarfatti, la sua amante ebrea, il Duce probabilmente non avrebbe avuto la determinazione di condurre in porto l’assalto al potere legale. Fu lei, Margherita, a procuragli i finanziamenti necessari, pare nell’ordine di cinque milioni di lire dell’epoca. E fu sempre lei a vincere le estreme titubanze di lui, ponendolo con le spalle al muro di fronte all’atroce dilemma dell’inazione, che lei così gli prospettò: «O marci, o crepi: ma so che marcerai». Insomma, senza una prova di forza dotata di una sua intrinseca e sacrale solennità, il fascismo sarebbe stato destinato a finire riassorbito nella palude liberale, sfiancato dai parlamentarismi. Certa storiografia ha voluto puntare il dito accusatore sull’establishment liberale, accusato di non aver saputo, né voluto, arrestare la marea montante nera. Si è tacciato, ad esempio, l’esercito di filofascismo, quasi che le forze armate, e in generale i pubblici poteri, prima ancora che latitanti, fossero collusi con gli insorti. Tra questi accusatori spiccò Emilio Lussu, che, nella sua requisitoria (Marcia su Roma e dintorni, Einaudi) contro l’attendismo dei militari, se la prese soprattutto con il comandante della Divisione territoriale di Roma, il generale Emanuele Pugliese, massone e monarchico di ferro. Ma si tratta, a nostro parere, di una tesi ingenerosa verso i quadri dirigenti dello Stato di allora. Perché il punto vero è uno solo: come potevano le autorità agire e reagire con inesorabile durezza, senza un ordine esplicito del re? Il governo Facta predispose infatti tutte le misure atte all’introduzione dello stato d’assedio. Le direttive emanate erano chiare: bisognava fermare le colonne fasciste a debita distanza dalla Capitale, accerchiarle, imporre loro la resa, disarmarle e arrestarne i capi. Funzionarono molto bene le interruzioni ferroviarie, scattate a Orte, Civitavecchia, Segni e Avezzano, per impedire che i convogli carichi di squadristi potessero entrare in Roma. Tutti i varchi della Capitale, come i ponti lungo il Tevere, furono saldamente presidiati. La guarnigione della difesa territoriale di Roma operò con ottimi risultati, in questa azione di contenimento e di contrasto preventivo, senza necessità di procedere all’uso della forza. Le cose andarono molto meno bene nelle realtà locali, dove prefetti e questori pavidi, o mal diretti, si arresero al primo assalto dei fascisti. Alle 12 del 28 ottobre lo stato d’assedio non scattò, perché il re si rifiutò di controfirmarlo, con un debole pretesto di formalità costituzionale: a proporglielo era un governo dimissionario, che non era in grado di esercitare le sue piene funzioni. La retromarcia reale non fu in ogni caso l’anticamera del caos. Non ci fu alcuna esitazione, non si registrò alcuno sbandamento nei tutori dell’ordine e le interruzioni ferroviarie furono revocate soltanto il giorno 30, consentendo l’afflusso delle squadre fasciste nella Città Eterna. Il seguito della vicenda è noto. La mattina del 30 ottobre Mussolini, partito da Milano in vagone letto, fu ricevuto in udienza dal re al Quirinale. Vittorio Emanuele gli diede l’incarico di formare il nuovo gabinetto. Il sovrano, acclamato dai fascisti in parata, riuscì a salvare in un sol colpo la monarchia e l’ordine interno. Ma aprì indubitabilmente le porte alla dittatura. In capo a tre anni, il fascismo sarebbe divenuto regime. Renzo De Felice, nella sua monumentale biografia politica di Mussolini, sembra prendere per buone le parole dello stesso Vittorio Emanuele, che sostenne – di fronte all’impeto di quella marcia – di aver agito da solo e in assoluta libertà, per evitare spargimenti di sangue. Così lo stesso sovrano rievocò quel passaggio storico cruciale: «Nei momenti difficili tutti sono capaci di criticare e di soffiare sul fuoco: pochi o nessuno sono quelli che sanno prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità. Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo "questa gente", perché tutti gli altri, chi in un modo, chi nell’altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore, io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata, perché gli italiani non si scannassero fra loro». Lungi dal voler stravincere, e pago di aver imposto comunque imposto al Paese la sua leadership, Mussolini accettò di guidare un ministero di coalizione formato, oltre che da fascisti, da nazionalisti, liberali di varie tendenze, popolari e demosociali. Il 16 novembre il governo ricevette la fiducia alla Camera, con 316 voti favorevoli contro 116 contrari. Risposero «sì», tra gli altri, Bonomi, De Gasperi, Giolitti, Gronchi, Meda, Orlando, Salandra.
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