giovedì 11 marzo 2010
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Le montagne hanno sempre un versante oscuro, e non è detto che sia la parete nord. I monti sono anche roccia e ghiaccio taglienti, non solo morbidi prati e dolci declivi innevati. Le cime insomma possono anche essere tristi, tal quale i tropici del compianto Lévi-Strauss, e generare «malesseri alpini» davvero impressionanti.Delitti, suicidi, stragi... Il giovane sociologo Christian Arnoldi ci va avanti per 30 pagine filate, all’inizio del saggio il cui titolo Tristi montagne (Priuli & Verlucca, pp. 238, euro 16,50) fa il verso al più noto lavoro dell’antropologo recentemente scomparso, descrivendo le aberrazioni valligiane registrate dalla cronaca nera tra gli anni Trenta (omicidi di Alleghe, Belluno) e il 2002 (mistero di Cogne, Val d’Aosta). Se il lettore riesce ad arrivare in fondo alla galleria degli orrori, è difficile che non metta in dubbio l’habitat alpino come luogo di pace interiore, bellezze incontaminate, valori solidi e sani – così come la retorica montanara imporrebbe.La montagna è invece angoscia e solitudine; la montagna è depressione e suicidi (cifre alla mano, il tasso più alto d’Europa), quanto meno è schizofrenia tra il superaffollamento allegro dei periodi turistici e l’abbandono surreale nei tempi morti dell’anno; la montagna è alcol dei vecchi e alcol e droga dei giovani. O – almeno – è anche questo. E forse non è un caso se alcuni giovani studiosi, come appunto Arnoldi ma anche (e per la medesima editrice) i coetanei Erich Giordano e Lorenzo Delfino con il loro Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità (pp. 270, euro 17,50) sollevano in modo senza dubbio choccante il velo sulle immagini idilliache dell’alpe.Non si tratta certo di riesumare i tabù ancestrali del passato, quando le popolazioni d’alta quota erano ritenute dagli intellettuali alla stregua di rimasugli di un paganesmo irrazionale e di atavica rozzezza, malate di menomazioni sia fisiche sia psichiche dovute alla miseria endemica e a un’autarchia sociale imposta dall’isolamento. Ma forse non è nemmeno corretto adagiarsi sugli stereotipi imposti dal romanticismo e poi dal consumismo, secondo i quali basterebbe imboccare i tornanti verso le altezze per trovare quiete, serenità, equilibrio, pulizia, genuinità e via idealizzando. «All’interno di una realtà come quella alpina – per dirla con Arnoldi, che a scanso d’equivoci è originario della Val di Non –, abitata da gente mite, riservata e accogliente e con paesaggi graziosi e pittoreschi, si nasconde sovente una dimensione inquietante di sofferenza e di mal di vivere... Le Alpi sono una realtà sofferente avvolta da un’aura paradisiaca, ne sono quasi ostaggio, sono prigioniere di una mistica del sublime, di una ideologia della purezza talmente radicata e consolidata da rimuovere ciò che non combacia con essa».La tesi è semplice e spaventosa nella sua radicalità: non solo la montagna risulta afflitta da mali geo-storici (isolamento e marginalità) antichissimi e praticamente irrimediabili, ma adesso deve subire pure i contraccolpi di una società dei consumi che – per utilizzarla ai suoi scopi – le ha sovrapposto un’immagine altissima ma falsa e al cui confronto i suoi abitanti soffriranno sempre di complesso d’inferiorità. Ormai i montanari (sempre Arnoldi) sono «intenti a trasformare vallate e vette per recitare un copione scritto a più mani dei cittadini».Una lettura non priva di pezze d’appoggio, senza dubbio, ma che pecca d’intellettualismo; a darle retta, è come se la vita in montagna fosse determinata dall’immagine che altri ne danno. Non sempre è così, invece, e proprio le vette serbano in sé l’antidoto più forte contro questo pericolo: perché impongono un contatto forte, concreto, sovente rude con la realtà – persino troppo talvolta. E questa rocciosa «verità» può opprimere, certo, o lasciare senza vie di fuga; ma anche, se umilmente accettata per quel che è, offrire appigli al riscatto e salvare con un’inattesa uscita verso la cima.D’altra parte bisogna pur ascoltare l’allarme, se viene lanciato contemporaneamente e con termini analoghi da voci che per di più provengono dall’opposto arco alpino, il piemontese; quelle di Giordano e Delfino, appunto: «La montagna del terzo millennio – scrivono – è un coacervo di vecchio e di nuovo, un impasto di tradizione e di modernità, un mondo fragile e complesso che si trova davanti a scelte difficili e decisive... Ci si aggrappa con le unghie e con i denti a un’immagine idealizzata di una società forte, compatta, fondata su principi forti e sani, per non vacillare di fronte all’horror vacui». Quando invece «il casus belli sta tutto qua, nel rendersi conto che la montagna illude con la sua presenza rocciosa, creando un equivoco non risolto tra la materialità del terreno e la presupposta univocità delle idee che le associamo».Il mondo delle altezze, insomma, è in crisi: né più né meno che le pianure. L’illusione che sia possibile salvarsi (dal consumismo, dalla globalizzazione, dalla civile disumanità della nostra società) fuggendo verso l’alto è – per l’appunto – un’illusione; e, se i cittadini possono permettersi di credere un po’ più a lungo nella favola bella di un ritorno allo stato di natura, coloro che già vivono in quei luoghi si trovano la verità appena fuori dalla porta della baita. Il rifugio, allora, diventa la ricostruzione di un’identità mitica e rassicurante, ovvero il rifiuto di ogni integrazione e mediazione, o lo «sballo» che impedisce di pensare...Giordano e Delfino, tuttavia, forniscono all’analisi sbocchi più costruttivi perché – laddove Arnoldi allineava fatti di cruda cronaca nera «alpina» – preferiscono interrogare una ventina di persone che, nonostante tutto, vivono in montagna. E proprio da costoro viene la diagnosi più realistica; come quella di Donato Bergese, docente di matematica nel cuneese: «Il periodo più brutto è passato. Adesso i giovani stanno tornando, si comprano delle pecore e lavorano anche coi computer. C’è nuovamente un piccolo attaccamento alla terra». O di Anna Arneodo, che prosegue l’opera del padre Sergio nella tutela dei provenzali d’Italia: «Fare una raccolta filologica, cercare quello che c’è stato è abbastanza facile; ma far rivivere quel mondo adattandolo a ciò che lo circonda attualmente è la parte più difficile. O la nostra cultura ha qualche radice talmente vitale che permetterà ai pochissimi rimasti di ripartire, come un seme che ricresce, altrimenti moriremo».Forse non sbaglia Federica Beux, tornata in montagna dopo aver preso un master in sviluppo alpino: «Pensavo che questo fosse un luogo che tirasse fuori il meglio di me, che mi aiutasse a star bene; ora ho imparato che si tratta di un ambiente come tanti altri. Lotto qui come lotterei altrove. Ma qui ha più senso, perché posso aiutare un posto come questo a essere più vivo».
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