lunedì 3 novembre 2014
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Io guardo: ciò che viene visto, come ben sapevano gli impressionisti, varia di attimo in attimo. Panta rei, mai due volte quel che vediamo è la stessa cosa, perché il fiume del tempo e della luminosità che avvolge le cose è sempre un altro e un altro ancora. Ma c’è di peggio, o di meglio: anche chi osserva è sempre diverso di momento in momento. Noi siamo sempre un interlocutore diverso, uno, nessuno, centomila. Ora, realizzare il perfetto rapporto tra il guardante e il guardato, è come riuscire a far partire verso l’alto due colpi d’arma da fuoco con due armi contemporaneamente, e sperare che le loro rispettive traiettorie si incrocino e che i due proiettili vi giungano nello stesso istante. O, ancora, è come se due angeli in volo libero si incrociassero e, presisi sottobraccio, continuassero a volare insieme, remando ognuno, sincronicamente, con l’ala periferica. Perché un guardare sia vero, occorre che accada un miracolo. Questo è il prodigio che riesce a ottenere l’artista, quando sta di vedetta sul mondo. Tutto questo si mescola, nella betoniera della mente, con la storia del mondo e con il pensiero del singolo. La sintesi che ne lievita è forse l’opera d’arte o quello che intuisco possa essere. È il momento in cui si esprime una nuova lingua, una nuova forma, figlie di una lotta che è paragonabile a quella di Giacobbe con l’angelo.
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