lunedì 1 novembre 2010
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Veramente giocare in piazza a lippa in quel giorno di vacanza non era un nostro diritto, ma una concessione degli adulti, purché non si facesse troppo chiasso per non svegliare i morti; d’altra parte noi ragazzi preferivamo disertare piazza e lippa per essere puntuali e freschi al gioco che i morti ci avevano preparato al cimitero nella loro festa. Oh, non crediate che avessimo confidenza coi morti al punto da accettare un invito a casa loro pur di giocare; i morti, anche se portavano il nostro cognome, non ci interessavano molto, incoscienti come eravamo; che se loro erano morti, noi che ci potevamo fare? A nostra scusante di allora, posso adesso assicurare che i morti ci interessavano poco perché la morte non ci interessava per nulla. Fosse arrivata quando avevamo la febbre a quaranta per l’influenza stagionale, non avremmo detto niente, tanto erano dolci quei visi della mamma o della zia o della nonna, e soprattutto quelli sempre seri degli uomini di casa, che si chinavano sul nostro, rosso di febbre, e, spesso, lo sfioravano con le labbra per sentire se scottavamo ancora. E in quel lago di dolcezza, che la febbre faceva spandere fino alla punta dei piedi, chi avrebbe avuto tempo e voglia di pensare alla morte? Se non era una abituale confidenza coi morti a spingerci al cimitero in quel giorno, significa che il gioco cui eravamo invitati era quello di sfidarci reciprocamente, i morti e noi, ad avere confidenza, essendo chiaro che un ragazzo, senza di essa che entri di diritto o di traverso, non sa giocare.Cominciavamo con la grande processione al cimitero, che si muoveva dalla chiesa dopo il canto dei vespri in onore dei Santi con subito attaccato quello in suffragio dei Morti, e che s’ingrossava man mano che passava davanti alle osterie, quasi una processione da venerdì santo. Poiché l’arciprete non portava nessuna reliquia e tanto meno l’ostensorio ma solo il breviario, come lo si vedeva spesso quando andava da privato a passeggio per i campi, la gente si prendeva licenza di parlare, gli uomini però a capo scoperto se non piovigginava, e le donne con la corona del rosario in mano, perché una processione era sempre una processione, soprattutto quando c’erano di mezzo i morti che, a non nominarli da vivi, meritavano sempre rispetto. Noi ragazzi imitavamo gli adulti, sempre pronti però a rispondere alle avemarie e ai requiemeternam quando il curato, su e giù a fianco della nostra compatta falange per incuterci il senso della preghiera, ci passava vicino. Accanto all’arciprete c’era quasi sempre un prete forestiero e, per essere giusti, anche l’arciprete chiacchierava, a volte perfino sorrideva, nonostante il breviario in mano. Il prete forestiero era ingaggiato per il discorso al cimitero, che sbracciava dall’alto d’uno sgabello, il quale sgabello era puntellato per qualche secondo dal piede del sacrista, all’occasione in sottana nera filettata di rosso, con tanto di cotta, e poi progressivamente abbandonato alla buona sorte e alle capacità d’equilibrista del prete, dato che lui doveva con la borsa di cuoio in mano girare e rigirare fra l’Uditorio per raccogliere le spese degli uffici della novena dei morti, detta novenone, e del discorso tenuto dal prete forestiero. Il quale prete, se aveva voce tonante o parlava di vedove e di orfani da strappare qualche lacrima, attirava parecchi cerchi concentrici attorno a sé, ma se la voce era deboluccia e la spendeva tutta per la risurrezione della carne, allora cominciavano le donne a cercare, con piedi e gomiti, d’aprirsi la strada per le tombe dei loro cari, e sussurravano: «Scusate, si fa tardi, ho da preparare la cena». Gli uomini, non avendo la cena da preparare e non essendo buoni a mettere fiori e cerini sulle tombe, dovevano stare lì, a fare finta d’ascoltare la predica e di cercare in chissà quante tasche la moneta che non doveva essere troppo leggera perché il sacrista l’avrebbe capito dal tonfo nella borsa, e meglio, porco qui e vacca là, non avere critiche in giro per 10 o 20 centesimi in più.Liberi dagli occhi di tutti, cominciava il nostro gioco. Pulivamo candelette e lumini posti sulle tombe dalla cera scolata. Se la cera era già indurita, cercavamo di mollificarla al calore dello stoppino acceso, poi l’avvoltolavamo nel palmo della mano per amalgamarla; e subito dentro, nella tasca della giacca. Che danno potevamo fare ai morti mettendo in tasca gli ultimi avanzi di lumini e le lacrime raggrumate delle candele? C’era, naturalmente, il più e il meno fortunato ma la Rosina fruttivendola, che vendeva lumini e raccoglieva gli avanzi di cera, non faceva preferenze e a noi che le rovesciavamo le tasche su un foglio di giornale dava a tutti, indistintamente, una manciata di castagne secche. A ripensarci, credo che la Rosina non avesse nessun tornaconto, anzi ci rimettesse; forse era il suo modo di chiedere scusa ai morti perché teneva aperto il suo negozietto per via dei lumini. Ma voi, cari, avete mai succhiato castagne secche per ammorbidirle un poco prima di tentare coi denti, che siano state guadagnate con la vostra intraprendenza sui morti, dato che coi vivi non è come adesso che danno ai ragazzi mille lire come a noi scapaccioni? Se si, converrete con me che un gusto simile nessuna castagna secca comperata in negozio l’ha mai avuto, a girare tutto il mondo.
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