venerdì 4 giugno 2021
Filosofo e storico dell’arte, Massimo Carboni ripubblica il saggio che cerca di mettere ordine nelle idee sugli elementi decorativi come forme che esprimono la ricerca umana dell'universale
Antoni Gaudì,un dettaglio della facciata di Casa Vincens

Antoni Gaudì,un dettaglio della facciata di Casa Vincens - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Quando nel 1913 Walter Gropius scrive un saggio per la rivista del Werkbund dove sostiene che «l’oggetto tecnico deve venir permeato da un’idea spirituale, da una forma che gli garantisca di essere preferito fra la massa di prodotti dello stesso genere», delinea in poche righe un programma di questioni che hanno riguardato le arti della nostra modernità fino a oggi. Intanto dice che l’oggetto tecnico deve vestirsi di una forma spirituale che lo renda convincente alla massa, quindi deve valersi di un ornamento che lo renda preferibile all’oggetto funzionale. Gropius nel 1911 aveva assunto il suo primo incarico importante d’architetto, le Officine Fagus, subentrando all’architetto Edward Weber che aveva fino a quel momento costruito una parziale ossatura dell’edificio, oggi considerato un caposaldo dell’architettura moderna.

Un grande critico inglese, Rayner Bahham, scrisse che l’opera di Gropius era l’inizio del processo di «americanizzaziopne dell’architettura moderna europea »; si potrebbe anche sostenere che quel progetto costituisce l’alba del fenomeno postmoderno in architettura, perché la “pelle” dell’edificio rende spirituale e nuovo ciò che strutturalmente è invece piuttosto convenzionale: questa “finzione” moderna – che potremmo mettere in luce anche nelle successive esperienze razionaliste, culminate nel vituperato International Style – la ritroviamo ancora oggi, con tutt’altro piglio, nel grattacielo con le foglie di Boeri, alias “Bosco verticale”, costruito sul tradizionale sistema trilitico a cui è stata fatta indossare una pelle di verzura. Tanto Gropius come Boeri hanno ragionato in termini funzionali ma hanno realizzato qualcosa che, in modi molto diversi, è “decorativo”.

Quando Gropius compie il viaggio in America e scopre i silos per sementi di Chicago, li paragona all’architettura egizia e scrive che sono questi i propilei della modernità, ma aggiunge che occorre dare a quelli europei uno stile convincente, persuasivo (il confronto con l’America, col suo know how, mentre la Germania esce sconfitta dalla Grande Guerra, è stringente per l’industria tedesca, e Gropius finisce per paragonare il problema delle case alla catena industriale fordista). Più o meno in quegli anni a Vienna Adolf Loos fa anatema sull’ornamento: è delitto. Di solito, per condannare un imputato bisogna quanto meno trovare il corpo del reato e il movente. Massimo Carboni, storico e teorico delle arti, filosofo dell’estetica, li individua nell’indebita associazione semantica di decorazione e ornamento. Ripubblicando ora un suo saggio di vent’anni fa rivisto e ampliato (L’ornamentale. Un percorso filosofico tra arte e decorazione, Jaca Book. Pagine 366. Euro 50,00), l’autore cerca di uscire da quel tunnel che riduce ancora oggi l’ornamento al piacere e alla bellezza: la sua natura è, ineluttabilmente, “callifora”. Carboni, con cognizione di causa, dissente.

La storia teorica della questione ornamentale data almeno due secoli, in sostanza dalla nascita dell’estetica come filosofia autonoma; in realtà la presenza dell’ornamento nei manufatti umani è databile, se vogliamo, già alla fine del paleolitico e all’alba del neolitico con lo sviluppo di quella che Marija Gimbutas chiamava la “società matriarcale”, dedita all’agricoltura, alla cura della casa e del villaggio, dove si diffuse l’arte fittile e su di essa (ma anche sui tessuti) fiorirono figure geometriche che, in realtà, non sono soltanto decorative ma hanno appunto una valenza simbolica e mitica, e in definitiva strutturale, per come l’ornamento appartiene all’oggetto non in quanto segno sovrapposto ma, si potrebbe dire, come battesimo che lega funzione e forma in qualcosa che va al di là della bellezza e anche della mera funzionalità: ha un valore ontologico. Il saggio di Carboni è una disamina accurata del pensiero che da Semper e Riegl, fino agli studiosi più importanti del Novecento come Panofsky, Sedlmayr – che definire, come fa, esponente del pensiero tradizionalista, forse per svincolarsi dal fatto che ebbe simpatie nazionalsocialiste, ha un sapore grottesco, trattandosi di uno storico che ha dato contributi fondamentali allo studio dell’arte di Michelangelo e Borromini, ma anche all’estetica del Settecento e ha svolto riflessioni sulla luce e l’astrazione assolutamente d’avanguardia – , Worringer, Merleau-Ponty, per approdare infine alla grande lezione di Henri Focillon, forse il più importante studioso d’arte del secolo scorso sia per cognizioni storiche che per pensiero teorico e critico.

La parte centraLE del libro è dedicata per esempio al Kunstwollen, il volere artistico che grazie a Riegl e Panofsky è uscito dall’ipoteca psicologista per approdare a una sorta di oggettività che interessa l’ornamento in quanto forma-struttura. Come scrive Carboni, il Kustwollen è interno allo stile stesso, è forza reale, concreta, immanente, è struttura dinamica, connessione generalizzante e sovraindividuale, in definitiva «forma categoriale metastorica». Pavel Florenskij vedeva appunto l’origine grafica del motivo ornamentale come “non oggettiva”, che solo più tardi si arricchirà di forme figurative. In una parola, l’ornamento è l’opposto del soggettivismo moderno. Forse per questo Gombrich nel Senso dell’ordine aveva parlato di «arte trascurata »; in realtà, come scrive Carboni, l’ornamento è ovunque ma illocalizzabile, non ha un luogo che sia suo perché lo plasma ogni volta che si mostra in superficie.

Due intermezzi sono dedicati all’arte islamica e a Matisse nella sua inclinazione verso Oriente. Quando penso all’arte islamica mi viene in mente, fra l’altro, il tappeto da preghiera e la decorazione che vi si può trovare che, chiusa fra arabeschi, richiama una sagoma vuota che ha qualcosa di astratto e antropomorfo al tempo stesso, ma non è mai né l’uno né l’altro, una forma sacra che sembra anche essere la porta a cui si accede all’invisibile, e questa spiritualità la ritrovo in certi ornamenti che Gaudí ha portato nelle sue architetture; oppure, sul versante dell’influenza orientale che arriva fino a noi, penso alla trasversalità, e sempre nella funzione di un ornamento come struttura che esprime se stessa dentro e oltre l’immagine che raffigura, con cui dall’antica Mesopotamia fino, poniamo, a Gustav Klimt si potrebbe delineare una storia della funzione ornamentale dell’Albero della Vita.

Matisse, che alla decorazione orientale ha dedicato più di un’attenzione, raggiunge credo il distillato della sua idea di ornamento a Vence, non tanto nella sofferta e complessa decantazione dei segni della Via Crucis o dell’immagine mariana, quanto proprio nella funzione dinamica del colore che attraverso le vetrate si diffonde grazie alla luce nello spazio della cappella: depositandosi e rimodulando la percezione dello spazio che ne abbiamo, il colore che vibra sotto la luce offre dell’ornamento l’emblema più sublime che un artista moderno abbia saputo darci. L’ornamento esiste in quanto è performante, cioè crea le regole per interpretare la sua stessa forma, è silente e anonimo ma al tempo stesso simbolico, è «un’arte di pensare che non ha nulla in comune con il pensiero» ha scritto Focillon in Vita delle forme, è icastico e non narrativo, porta subito al cuore dell’universale, «fa precipitare il momento»; è l’istante attuale, il jetzt-zeit benjaminiano, sottolinea Carboni, ma, come pensava Focillon, è l’istante che ha dentro di sé molteplici tempi, è polifonico, esprime un elemento comune di quelle che lo storico francese chiamava “famiglie” (un tempo complesso come la durata bergsoniana che è afflato di coscienza ed élan vital).

Matisse diceva che si deve avere il coraggio di essere semplici, e che «non c’è niente da capire, bisogna sentire». E il tempo come dimensione polifonica, che innesta il nostro tempo esistenziale nello svolgimento di quello cosmico, consente di vedere la storia – per citare ancora Focillon (che al concetto di evoluzione preferì sempre quello di sviluppo) – non come freccia ma come «conflitto di precocità, d’attualità e di ritardi». È questa strana scala di Escher disegnata da Focillon che consente di leggere in modo diacronico e disseminato nello spazio delle diverse culture, quella grammatica dell’ornamento che va oltre la sua natura “callifora” sia pure coniugata all’antico decoro, guadagnando la dimensione del decus, che è bellezza e qualità morale.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: