giovedì 28 novembre 2019
Documenti inediti mostrano come le indagini sull’attentato a Graziani siano state svolte solo per confermare la tesi precostituita che vedeva nel monastero la “centrale” di una rivolta
Le “fake news” del fascismo su Debre Libanos
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La strage di Debre Libanos, in Etiopia, è una ritorsione per l’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937. Secondo le autorità italiane, le menti del complotto sono lì. In poche settimane, si fanno indagini e interrogatori sommari. Verbali e relazioni mostrano un quadro di indizi labili, dichiarazioni vaghe, testimonianze estorte, congetture e preconcetti. Una macchina giudiziaria che sembra avere solo lo scopo di trovare conferme a una verità già stabilita a priori. Graziani cova un paranoico risentimento contro la Chiesa ortodossa di Etiopia, che vede come il nerbo della resistenza. Debre Libanos – anima spirituale e civile del Paese – ne sarebbe il cardine. L’attentato è l’occasione per regolare i conti. Questi sono i documenti – quasi tutti inediti, alcuni pubblicati ma poco conosciuti – di quell’indagine militare. Il 5 marzo, il generale Tracchia telegrafa a Graziani: «Popolazione Debra Libanos indigena attribuisce fuga priore Neglegherghis Ghebremascal at sua convenienza [corretto a matita: connivenza ndr] con noti attentatori rifugiatisi in primo tempo presso convento». Debre Libanos è già nel mirino. Si ritiene che lì abbiano trovato rifugio gli attentatori. La fuga del priore è indizio del coinvolgimento dei monaci. La “verità” sull’attentato è già scritta. Lo dice esplicitamente Graziani, il 7 marzo: «Tutto il clero di Debra Libanos et popolazioni vicine sono complici nel conoscere esattamente i nomi di coloro che in primo tempo si sono rifugiati presso il convento dopo aver partecipato at attentato persona Viceré». Tracchia incarica i carabinieri di indagare. Il colonnello Garelli va a Debre Libanos e ragguaglia Tracchia che, a sua volta, l’11 marzo, gira le informazioni a Graziani. Sono le stesse notizie che il maggiore Mario Quercia, invia, il 14 marzo, al comando superiore dell’Arma. Secondo Quercia, i legami tra i due attentatori e il monastero sono chiari. Abraham Debotch e Mogus Asghedom già da settembre frequentano una abitazione nei pressi del convento dove vivono tre donne, zie della moglie del primo. Il 9 febbraio, i due accompagnano a Debre la moglie di Debotch – Taddesesc Istefanos – e poi, il 12, ripartono per Addis Abeba. Con loro, per alcuni giorni nella capitale c’è anche Abba Confù, religioso di Debre, amico sia di Debotch che «del priore del convento e vecchio amico e confidente di ras Destà». Abba Confù ritorna nel monastero prima dell’attentato. Abraham Debotch e Mogus Asghedom riappaiono, invece, a Debre Libanos dopo l’attacco a Graziani, tra i il 20 e il 21 febbraio.

Secondo Quercia, non è solo Abba Confù ad avere legami con i due attentatori ma anche il priore di Debre Libanos. Lo dimostrerebbe la sua fuga repentina: «S’è formata la convinzione che colpevoli di favoreggiamento ai partecipanti al complotto per l’attentato a S.E. il Vice Re possono considerarsi: il priore del convento Tzebatié Teclagheorghis (latitante). È uno dei partecipanti al complotto o quanto meno è un favoreggiatore, perché ha ricoverato nel suo convento tutte le predette persone indiziate quali responsabili dell’attentato. Ciò è avvalorato dalla sua fuga». Con lui, sono accusati altri otto monaci. Sette vengono arrestati. Due – compreso il priore – sono latitanti. Le accuse sono inconsistenti: avrebbero tollerato che nella cittadella conventuale vi fossero i due attentatori, la moglie di uno di loro con le sue tre zie. Un’accusa che vale poco, se si tiene conto di come è articolato il monastero. È lo stesso Quercia che nel suo rapporto descrive la conformazione del luogo, composto «da varie centinaia di tukul ove abitano monaci, frati, diaconi, studenti, suore, sparsi e nascosti alla vista, in zona boscosa di olivastri acacie ed eucalipti dell’ampiezza di chilometri 5 per 3 e mezzo circa [...]. Presso questo convento giornalmente si recano pellegrini a pregare e a bagnarsi nelle acque che scorrono in una grotta, perché benedetta dal santo Teclaimanot che ivi morì. Non è possibile controllare il traffico delle persone». Se una famiglia sceglie di vivere nella cittadella conventuale, il priore non ne è responsabile. Spesso neanche la conosce. Secondo la ricostruzione italiana, il priore sarebbe andato più volte nella casa abitata dal gruppo degli attentatori. Basta questo per farne un complice? La fuga, il 22 febbraio, sarebbe l’indizio che è in combutta con gli attentatori. Per gli altri otto religiosi, sembra che basti essere amico o collaboratore del priore per essere coinvolto nella preparazione dell’attentato. Interrogati, vengono ritenuti reticenti, contraddittori o bugiardi. Alla fine qualche ammissione arriva «dopo energiche domande» e rendendo «confessione dopo la minaccia della fucilazione», scrive il maggiore Quercia. Il valore di queste ammissioni è tutto nei metodi con i quali sono state rese. A metà marzo, dunque, la convinzione che un ristretto gruppo di autorevoli membri del monastero siano coinvolti nell’attentato è già maturata. Il rapporto di Quercia esclude che gli altri monaci ne siano al corrente. Gli arrestati sono portati ad Addis Abeba «a disposizione » dell’ufficio politico. Vengono interrogati.

Sono acquisite anche le testimonianze di «Freu Akanau e delle due uizerò Abbebec Istefanos e Uolette Ghiorghis Gabriet». Il 21 aprile, Freu Akanau dice: «Circa 20 giorni prima dell’attentato [...] venne in visita la uizero Abebec Istefanos la quale ci raccontò che nel mese successivo (febbraio) in Addis Abeba sarebbe avvenuta una grande rivoluzione per cui ci sconsigliava di recarci, per tale epoca, in detta città. L’Abebec – a nostra richiesta – disse che detta notizia l’aveva saputa da un prete di Debra Libanos certo Abba Gabreiesus». Sono queste vaghe, labilissime informazioni, rese in amarico e tradotte in italiano, sotto fortissime pressioni psicologiche e fisiche, che dimostrerebbero ciò che per chi indaga è già la verità e cioè che Debre Libanos è il centro politico della rivolta. Il 27 aprile 1937, l’Ufficio politico stila un rapporto – firmato dal maggiore dei carabinieri, Alberto Faedda – e lo invia al tribunale di guerra di Addis Abeba: «Dal complesso dell’interrogatorio appare evidente la responsabilità dei componenti il convento di Debra Libanos in relazione all’attentato di S.E. il Viceré». Il 6 maggio, dall’Ufficio politico di Addis Abeba viene inviata al comando superiore dei carabinieri questa disposizione, firmata dal tenente colonnello Aldo Princivalle: «Dalle ulteriori indagini eseguite per l’attentato a S.E. il Viceré è emerso che l’abba Ghebreiesus, del convento di Debra Libanos, era a conoscenza dello stesso attentato molti giorni prima che fosse commesso». Le prove del coinvolgimento dei monaci consisterebbero nella residenza a Debre Libanos dei familiari degli attentatori, dalla sporadica presenza di questi ultimi, dalla saltuaria frequentazione della loro casa da parte del priore e dalla sua fuga misteriosa, dalla testimonianza che qualcuno sapesse che ad Addis Abeba sarebbe accaduta una imprecisata rivoluzione. Elementi inconsistenti e che – comunque, in linea di ipotesi – sarebbero riferibili a numero limitato di persone. Invece, sulla base di questa nebulosa ricostruzione – confluita nelle conclusioni degli avvocati militari Olivieri e Franceschino – non si perseguono i presunti responsabili – se mai fossero stati dimostrati tali – ma si uccidono - dal 21 al 29 di maggio del 1937 – 452 persone, secondo i documenti ufficiali italiani, o circa duemila secondo alcuni storici contemporanei. Un massacro inutile e ingiusto. Le carte dell’inchiesta lo dimostrano.

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