mercoledì 30 giugno 2021
Al Festival siciliano il film distopico di Cupellini, in sala dall'1 luglio. In una terra devastata da morte e violenza, il viaggio di un Figlio nelle memorie del papà per trovare il senso della vita
Una scena de “La terra dei figli” di Claudio Cupellini: la Strega (Valeria Golino) e il Figlio (Leon de la Vallée)

Una scena de “La terra dei figli” di Claudio Cupellini: la Strega (Valeria Golino) e il Figlio (Leon de la Vallée)

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«Sulle cause e i motivi che portarono alla fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di storia. Ma dopo la fine nessun libro venne scritto più». Si apre con queste parole il distopico film di Claudio Cupellini presentato in anteprima – come un paradosso – nell’incantevole scenario del Teatro Antico di Taormina fuori concorso al 67° Film Festival (una produzione Indigo Film con Rai Cinema da giovedì al cinema con O1). Eppure è un 'libro' il protagonista di questa storia inquietante, violenta, a tratti angosciante, ma che lascia la porta aperta all’umanità possibile, a un raggio di sole che possa squarciare le tenebre di una civiltà che appare ormai alla fine. Siamo in un mondo devastato. Di morti e nature morte. Non si sa esattamente cosa sia successo: ma un metaforico veleno ha distrutto il mondo. Un padre (Paolo Pierobon) e suo figlio (l’esordio cinematografico del rapper romano Leon de la Vallée, emozionatissimo alla conferenza stampa («Scusate, è la prima volta») sono tra i pochi superstiti: la loro esistenza, su una palafitta in mezzo a una laguna grigia (quella di Chioggia e del Delta del Po, nella realtà), è ridotta a lotta per la sopravvivenza. Non c’è più società, ogni incontro con gli altri uomini è pericoloso. Ma in questo mondo regredito, il padre – dai modi duri e anaffettivo verso quel ragazzo, l’unico nato «dopo il veleno» – affida a un quaderno i propri pensieri. Parole che per suo figlio. che non sa leggere e nulla sa del mondo precedente, sono segni indecifrabili. Alla morte del padre, il ragazzo decide di intraprendere un viaggio verso l’ignoto alla ricerca di qualcuno che possa svelargli il senso di quelle pagine misteriose. La terra dei figli è la terra devastata che i padri hanno lasciato loro. Per i figli non sembra esserci futuro. Eppure proprio quei pochi figli che sono rimasti, come Maria (Maria Roveran), che il Figlio (non ha un nome, il padre lo ha sempre e solo chiamato Figlio) incontrerà nella sua strada, cercheranno di fare la loro parte per riportare la «vita» nel mondo. «La vita che c’era prima», per dirla con un altro personaggio chiave, la Strega ( Valeria Golino): cieca, ma depositaria del confine della Chiusa oltre la quale «non c’è niente». Oltre la Chiusa il Figlio farà i conti con il mondo che è rimasto e con il suo desiderio di conoscenza. Si muoverà in mezzo alla violenza cannibale e incontrerà persino il Boia (un ruolo inedito per Valerio Mastrandea). «L’unico che cederà al ricordo, agli affetti e compirà delle scelte», evidenzia l’attore.

Una storia ispirata dall’omonimo graphic novel di Gipi, «un artista che amo e seguo da molti anni», dice il regista Cupellini (fra i suoi lavori Alaska, la serie Gomorra). « La Terra dei Figli è certamente un romanzo di formazione - prosegue -, ma è anche una grande storia di avventura, titanica e appassionante, che affonda le sue radici in una tradizione letteraria, che parte da Mark Twain, con i suoi Huckleberry Finn e Tom Sawyer, e arriva ai giorni nostri con romanzi quali La strada di Cormack Mc Carthy. Un grande viaggio fisico e sentimentale, che parla di argomenti che appartengono sempre più al sentire comune: il futuro del mondo che lasceremo ai nostri figli e l’importanza della memoria », spiega il regista. «Sapere qualcosa che non c’è più diventa più importante di quello che si sta vivendo – aggiunge Valeria Golino, che sarà fra i protagonisti anche di Occhi Blu dell’esordio alla regia di Michela Cescon, presentato sempre a Taormina –. Oggi, ad esempio, c’è una dimenticanza, non perché siamo cattivi, ma perché non si fa in tempo a ricordare tutto, bombardati come siamo da mille cose».

Guardare questo film oggi, dopo o nel mezzo della pandemia, fa un certo effetto. Ma è stato scritto prima e per questo va letto in maniera più 'universale'. «Questo racconto ci narra del mondo che stiamo distruggendo e che consegneremo ai nostri stessi figli, ci avverte della tragedia che incombe sul nostro futuro. E del nostro progressivo inaridimento culturale e umano. In questo senso ho interpretato il quaderno del Padre come una sorta di preziosa fiammella, che il Figlio, anche se inconsapevolmente, non vuole lasciare spegnere - aggiunge il regista -. Il Figlio e Maria, sono per me la riproposizione delle figure di Adamo ed Eva, sono gli eredi di un mondo che non esiste più e sono i padri del mondo che costruiranno». Ecco perché il film post-apocalittico lascia spazio alla speranza. Anche la sua luce a un certo momento cambia. C’è una via d’uscita. Alla portata di tutti. L’amore. Il desiderio di vita. «Noi siamo vivi, anche se i ricordi portano dolore».

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