venerdì 13 gennaio 2023
Il British Museum dedica una mostra kolossal alla celebre lapide e alle vicende della sua decifrazione duecento anni fa
Uno dei reperti esposti nella mostra “Hieroglyphs: unlocking ancient Egypt"

Uno dei reperti esposti nella mostra “Hieroglyphs: unlocking ancient Egypt" - British Museum

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Un blocco di granodiorite con sopra inciso un decreto emanato nel 186 a.C.: i sacerdoti riunitisi a Menfi celebrano il sovrano Tolomeo V Epifane, loro benefattore. La stele fu collocata in un tempio perché fosse visibile a tutti. E perché fosse anche compresa da tutti, per il testo si usò la scrittura “sacra” (i geroglifici), quella “popolare” (il demotico) e il greco. Secoli dopo fu rimossa per essere reimpiegata in nuove costruzioni e venne poi riportata alla luce nel 1799, quando le truppe napoleoniche cercarono di riparare le mura di Fort Julien, presso Rashid, ovvero Rosetta, sul delta del Nilo. Il valore della stele fu evidente da subito anche agli Inglesi, che pretesero che fosse loro consegnata quando ebbero la meglio sui nemici francesi, riuscendo poi a portarla in patria col beneplacito dei loro alleati ottomani. Dopo un lungo viaggio in mare, il prezioso reperto approdò a Portsmouth e concluse il suo viaggio a Londra. Era il 1802, e nello stesso anno la stele veniva già esibita ai visitatori del British Museum, di cui ancora oggi è uno dei pezzi pregiati, mentre la Society of Antiquaries iniziò a far girare per l’Europa delle copie del testo, auspicando che grazie al confronto fra le tre scritture si potesse svelare il segreto dei geroglifici. Dopo il tramonto della tradizione sacerdotale, infatti, non si era più in grado di interpretare i geroglifici, che stimolarono a lungo la fantasia degli Arabi prima e degli Europei poi. Presto si iniziò a fantasticare della presenza nei testi egizi di segreti alchemici e formule magiche, ma non mancarono intuizioni brillanti, come quella di Ibn Whashiyya (IX-X sec.) che comprese precocemente il potenziale della lingua copta, che discendeva dall’egiziano antico. L’Europa dell’età moderna si appassionerà all’enigma, le collezioni di antichità egizie si moltiplicheranno, così come pure i tentativi di interpretare quei segni inventati nientemeno che dal dio Thot. Alla notizia del ritrovamento della stele si riaccendono le speranze come pure la competizione fra la “vecchia Inghilterra” e la “giovane Francia”, con Thomas Young da una parte e Jean-François Champollion dall’altra. Sarà quest’ultimo, che con Young aveva avuto uno scambio epistolare, ad arrivare più efficacemente alla soluzione. Champollion si concentrò sui nomi propri inclusi nei cartigli e fu guidato dalla sua conoscenza del copto e dalla corretta convinzione che i geroglifici fossero sempre stati, anche prima dell’influenza del greco antico, un tipo di scrittura “figurativa, simbolica e fonetica insieme”, in altre parole, capace di rappresentare tanto parole e concetti quanto suoni.

Uno dei reperti esposti nella mostra “Hieroglyphs: unlocking ancient Egypt'

Uno dei reperti esposti nella mostra “Hieroglyphs: unlocking ancient Egypt" - British Museum

La sua scoperta fu illustrata nella Lettre à M. Dacier nel settembre del 1822. Duecento anni dopo il British Museum ripercorre il lungo cammino verso la decifrazione dei geroglifici con la mostra “Hieroglyphs: unlocking ancient Egypt”, visitabile fino al 19 febbraio. Una mostra di cui la stele di Rosetta è la grande protagonista e che è forte della ricca collezione egizia del British Museum, seppur non manchino prestiti internazionali. L’Italia ha fatto la sua parte, con reperti e stampe che vengono dal Museo Egizio di Torino, dal Museo Civico Archeologico di Bologna e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Mentre le prime sale documentano la curiosità medievale e moderna per la scrittura degli Egizi, la seconda parte della mostra intende offrire un saggio della grande varietà di informazioni che, com’è ovvio, si sono potute ottenere quando si ebbe finalmente accesso alle fonti scritte. Non solo i principali eventi della storia dell’antico Egitto, ma anche aspetti della cultura e della vita quotidiana, delle credenze religiose e dell’immaginario oltremondano, la cui grande influenza non si è tradotta solo nella costruzione di sepolture monumen-tali, ma anche nella redazione di testi che accompagnavo il viaggio del defunto, come il celebre Libro dei morti, di cui si può ammirare il magnifico esemplare rinvenuto con la mummia della regina Nodjmet (circa 1050 a.C.). Un percorso articolato, dunque, che si conclude significativamente con la pietra di Shabaka, che racconta, fra le altre cose, il mito secondo cui il dio Ptah avrebbe creato il mondo leggendo ad alta voce i nomi degli dèi, dei popoli, delle città e dei templi. A suggerire che questa mostra non vuole essere solo la celebrazione di un pur importante bicentenario, ma ambisce a sollecitare una più ampia riflessione sul fascino senza tempo del potere creativo della scrittura.

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