mercoledì 13 maggio 2020
Parla il filosofo: «Abbiamo perso la capacità di pensare il limite, estromesso dall’orizzonte dell’esperienza, e per questo oggi ci risulta scandaloso e persino mostruoso»
Petrosino: «Viviamo la rivincita dell'imprevedibile»
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Dai rumori che arrivano attraverso il telefono si capisce che Silvano Petrosino sta scartabellando tra i suoi libri. «C’è un passaggio in cui Nietzsche si esprime benissimo – ricorda il filosofo –. Trovato, è nella Genealogia della morale: “ciò che costituisce la più caratteristica nota dominante delle anime moderne, dei libri moderni, non è la menzogna, sebbene l’innocenza incarnata nella bugiarderia moralistica”. Non si potrebbe dire meglio, veramente. Davanti al coronavirus tutti si sentono in dovere di esortare, ammonire, rimproverare. Sulla base di quale conoscenza o visione della vita, però, non è mai chiaro. Ed è per questo che dopo un po’ le buone intenzioni si disperdono in una chiacchiera insopportabile ». A Petrosino i titoli per prendere posizione non mancano. Professore di Teorie della comunicazione e di Antropologia religiosa e media all’Università Cattolica di Milano, è tra i massimi conoscitori dell’opera di Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida. Saggista estroso, ha da poco pubblicato da Interlinea Lo scandalo dell’imprevedibile (pagine 72, euro 10,00, ora disponibile in e–book, il libreria dal 18 maggio), un piccolo libro che è anzitutto un tentativo di “pensare l’epidemia”, come avverte il sottotitolo. «Perché adesso, nella cosiddetta Fase 2, di pensiero c’è più bisogno che mai», insiste.

Be’, non che finora non fosse necessario…

Sì, ma su un piano diverso. Fino a questo momento la pandemia ha messo in discussione una delle convinzioni più radicate nella società contemporanea: quella per cui tutto può e deve essere previsto. Intendiamoci, non si tratta di una preoccupazione recente. L’umanità ha sempre cercato di spingere lo sguardo nel futuro, affidandosi a indovini e sciamani, a poeti e visionari. Il problema è che adesso la previsione si è costituita in scienza. Prima ancora, il problema è che la scienza viene confusa con magia.

Addirittura?

Che cosa si chiede attualmente alla scienza? Che ci dia tutto, che ce lo dia sempre e che ce lo dia subito. Ma questo solo la magia è in grado di prometterlo. Gli scienziati stessi lo sanno bene, il principio di falsificazione è il loro principale strumento di lavoro, le loro ricerche richiedono tempi lunghi e prolungata prudenza. Queste caratteristiche, però, sono del tutto ignorate dall’opinione pubblica, per la quale la scienza ha già pronta la risposta. La quale, a sua volta, per essere davvero scientifica, dev’essere assolutamente certa. Certa, sottolineo, perché ormai la certezza è l’unico criterio attraverso il quale si immagina di riconoscere la verità. Se poi qualcosa non funziona, i casi sono due: o questa verità fatta di certezze ci viene tenuta nascosta, oppure era sbagliata la previsione. Il fallimento individuale non è più ammesso. Da condizione della nostra umanità, si è trasformato in opposizione, in elemento esterno che ci impedisce di primeggiare e di eccellere. Non è mai colpa nostra, la responsabilità è per forza di qualcun altro.

Riguarda anche il coronavirus?

Esatto. Nelle ultime settimane l’imprevedibile è tornato a fare irruzione nel mondo. Anzi, nel primo mondo, vale a dire nelle nostre società industrializzate e benestanti, che si sentivano al riparo grazie alla fiducia riposta nei big data e nell’alchimia degli algoritmi. Il senso del limite, che era stato estromesso dall’orizzonte dell’esperienza, si è ripresentato con una forza letteralmente impensabile: proprio perché non siamo più capaci di pensarlo, ci risulta scandaloso, se non mostruoso. Vengono da qui le paranoie della Fase 1 e i rischi della Fase 2.

A che cosa si riferisce?

Alla pretesa di sicurezza che circola in queste ore. Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un’aspettativa in sé legittima, ma che non va eretta a ideologia. Su questo, a mio avviso, non c’è parabola più illuminante dello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Il tema che Stevenson affronta non è affatto la lotta tra bene e male, ma l’ossessione del controllo. Jekyll, lo scienziato, vorrebbe tenere a bada l’animalesco Hyde, permettendogli magari di sfogarsi di tanto in tanto. “In sicurezza”, come diremmo oggi. Il guaio è che non si può essere sicuri di tutto. Nessuno esce di casa convinto che quel giorno, e proprio quel giorno, si innamorerà. Lo stesso vale per tanti altri elementi decisivi della nostra esistenza. La sicurezza è importante, lo ribadisco, ma non può essere barattata con la libertà o, meglio ancora, con la responsabilità.

Potrebbe accadere?

La questione non è tecnica, non riguarda la maggiore o minore affidabilità di un dispositivo, né il maggiore o minore rispetto formale della privacy. Personalmente mi sento molto più minacciato dall’enfasi moraleggiante di molta comunicazione, a volte anche istituzionale. Non è l’applicazione dei provvedimenti a inquietarmi, ma certi goffi tentativi di giustificazione. Di nuovo, non vorrei essere frainteso: non possiamo fare a meno della sicurezza così come non possiamo fare a meno della scienza. Ma il bene non può essere imposto, perché il bene è sempre legato al filo sottilissimo e tenace della libertà umana. È la differenza che passa tra il futuro e l’avvenire. Il futuro è quasi un’estensione del presente e, a determinate condizioni, può perfino essere previsto. L’avvenire, invece, è quello che accade al di fuori e spesso contro previsione, è l’imprevedibile per eccellenza.

Non è una distinzione troppo sofisticata?

No, è una distinzione irrinunciabile, che rimette in gioco il pensiero o, per essere più precisi, la serietà del pensare. Lo sa perché mi infastidiscono tanto le tirate moralistiche che in questo periodo chiunque si sente tenuto a dispensare?

Me lo dica lei.

Perché sottintendono la convinzione che, in fondo, su quegli argomenti lì possa esprimersi chiunque, senza alcuno sforzo e, quel che è peggio, senza alcuna reale conseguenza. Si largheggia in moralismo perché si ritiene che la morale sia irrilevante, come se la riflessione relativa alla gran parte dell’esperienza umana (le emozioni, i sentimenti, gli affetti, la fede) fosse una specie di passatempo con cui svagarsi dopo che ci si è occupati di argomenti più seri.

Quali?

Quelli che cadono sotto la competenza della scienza. Ce lo siamo sentiti ripetere in continuazione, negli ultimi tempi: contano i numeri, non le parole. Ma i numeri devono essere interpretati, così come devono essere interpretate le parole. Altrimenti si cade nella « bugiarderia moralistica» denunciata da Nietzsche.

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