venerdì 28 aprile 2023
Al Beaubourg una grande retrospettiva sulla scultrice francese che seppe esprimere il senso di angoscia della modernità dominata dall'atomica
Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou - © Adagp, Paris 2023 Photo: Centre Pompidou / Hélène Mauri

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Nel 1950 il canonico della chiesa di Notre- Dame-de-Toute-Grâce du Plateau di Assy, in Alta Savoia, Jean Devémy – uomo di forte personalità – decise di compiere il passo a cui pensava da molto tempo, da quando era cappellano del sanatorio di Sancellemoz: costruire una chiesa per i malati e il personale che viveva sull’altopiano di Assy, ai piedi del Monte Bianco. Ispiratosi al rinnovamento promosso dai domenicani Couturier e Régamey con la rivista “L’Art sacré” il canonico Devémy aveva idee a dir poco ardite, che andavano a toccare la sensibilità dei gruppi “tradizionalisti”: come ben riassume Florence de Mèredieu nel saggio che compare nel catalogo della mostra dedicata a Germaine Richier attualmente in corso al Centre Pompidou di Parigi, curata da Ariane Coulondre (fino al 12 giugno), Devémy non volle coinvolgere nella decorazione della chiesa artisti credenti, ma si orientò per lo più su alcuni nomi dell’arte moderna: l’unico dichiaratamente cristiano era Rouault, mentre nella chiesa lavorarono nomi come Matisse, Bonnard, Léger, Lipchitz, Chagall, Braque, Lurçat. Devémy affidò l’opera più importante, il crocifisso sull’altare centrale, a una donna. Scelta anche questa coraggiosa: una donna all’epoca, in un ambito ecclesiastico, non era proprio cosa usuale, ma su Germaine Richier bisogna dire che il canonico era mosso da una certezza granitica. In realtà, aveva innescato una bomba a tempo.

Cinque mesi dopo l’installazione della scultura, nel gennaio 1951, quel Crocifisso dove il corpo del Cristo fa quasi tutt’uno col tronco della croce ed è ridotto all’osso, volutamente povero d’aspetto, scatenò un mondo di proteste. Venne considerata una forma d’arte degenerata e alcuni ne chiesero la rimozione in una posizione secondaria. La faccenda arrivò anche in Vaticano e un cardinale molto vicino a papa Pio XII, Celso Costantini, sull’“Osservatore Romano” definì il Crocifisso un «indecente pasticcio, un insulto alla maestà di Dio, uno scandalo per la pietà e la fede». In Vaticano da tempo tenevano d’occhio sia Couturier sia, ora, il caso Assy, e Germaine Richier accusò il colpo di non essere stata capita. Scese in campo persino André Malraux, che nel 1959 diventerà Ministro della Cultura del Governo De Gaulle, affermando: «È il solo Cristo moderno davanti al quale possiamo pregare».

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou - © Adagp, Paris 2023 Photo: Centre Pompidou / Hélène Mauri

Germaine Richier aveva studiato all’Accademia di Montpellier (città dove la mostra si sposterà in seconda battuta); nel 1926 andò a Parigi e divenne allieva di Bourdelle, acquisendo in fretta capacità tecniche, conoscenze delle materie, sviluppando una propria cifra stilistica. Nel 1934 il suo primo capolavoro: Loretto, nome del modello che posò per l’opera. La scultura venne esposta la prima volta a Parigi nel 1936 nella galleria Max Kaganovitch, e l’anno dopo al Jeu de Paume nella collettiva “Le donne artiste d’Europa”: subito dopo lo Stato la acquistò. Germaine è l’unica donna artista che negli anni del dopoguerra si misura alla pari con autori come Giacometti, Wotruba, Marino Marini (per il quale fece anche da modella e con cui, nel 1944, espose a Basilea, trovando affinità plastiche e tematiche con le sue “Pomone”).

La sua linea è figurativa, ma ben presto diventa eterodossa, tesa alla sperimentazione formale e sulle materie. Il critico Tapié nel volume Un art autre, edito nel 1952, la collocò accanto all’arte informale europea di Wols, Dubuffet e Fautrier; ma Germaine è mossa da una forza interiore che le consente un rapporto aperto e totale con le materia, simile a un fabbro che governa il fuoco con sapienza per forgiare il metallo. È un rituale sacro, quello dei metalli, e Germaine lo pratica con una forza superiore: plasma, scava, graffia, incide, corrode, porta la superficie a essere simile a una pelle sofferente e fermentante di luci e tumefazioni pustolose di sieri amari: «Crudeltà?» si chiede Francis Ponge. No, conclude, «si tratta di senso energico», come i vecchi alberi che buttano fuori tumori e mostrano cicatrici, aggiunge. Il Crocifisso di Germaine mi fa venire in mente soltanto il Cristo di Grünewald a Colmar, il cui corpo mostra spine, pustole, ferite, abrasioni come un tronco sofferente che espelle le sue resine e mostra le croste di sangue che cauterizzano le ferite. Mentre passavo una a una le centinaia di sculture, piccole e grandi, busti, ritratti, figure e metamorfosi dell’umano di cui si compone questa straordinaria retrospettiva che il Pompidou le dedica, mi veniva spontaneo il ricordo della mostra di Maillol vista sempre a Parigi un anno fa provando, alla fine, grande delusione. E mi sono detto che Germaine aveva centrato il punto: la scultura moderna non può accontentarsi del corpo idealizzato, “lisse”, levigato, di Maillol, come del resto nemmeno Matisse e Giacometti avevano fatto.

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou - © Adagp, Paris 2023 Photo: Centre Pompidou / Hélène Mauri

Era considerata uno “sculpteur-poète” ma aveva una competenza tecnica straordinaria mossa dall’incessante vena sperimentale che la spingeva a usare anche materie solite in altri ambiti, per esempio nell’arte vetraria. Plasmò il piombo, incastonandovi, come organi astrali in un corpo opaco, vetri colorati: vedi la grande Croce, che sembra un frutto maligno dell’era nucleare, dove nel 1953 Germaine impianta vetri gialli e blu come lanterne sacre e di misteriosa potenza. Corpi-materia che si ripetono variando forma come usciti da un crogiolo che li ha cambiati di sostanza espressiva, un’opera che continua fino agli ultimi anni di vita. Quando comincerà a soffrire per la malattia che le impedirà di maneggiare grandi forme, Germaine allora produrrà molte sculture piccole. Come accade soltanto nei grandi artisti, le due dimensioni non mutano l’intensità la sua azione, anzi; come la serie nata nel 1954, ossi di seppia incisi e graffiati e poi fusi in un bronzo dorato, cose arcaiche e preziosissime, tragiche ed elegantissime, deformi e composte al tempo stesso come demoni-feticci.

L’idea dell’osso è l’idea stessa della scultura di Germaine, che realizzando il Crocifisso di Assy tende appunto al minimo essenziale, il segno che rimanda appena al corpo ma non tradisce l’umano che, più di ogni altro, si esprime su quei due legni incrociati. Ad Assy non venne capita: se il bronzo dorato era per lei quanto di più ricco poteva vestire la scultura, al tempo stesso la riduzione all’osso rendeva quell’opera al povero, «alla sua espressione più elementare: Un Cristo morente. Assoluto. Vivente. Teso. Secco e nervoso». Ma attenzione, scrive Mère dieu, non equivochiamo: il piano dell’essenza, che è anche il piano del sacro, produce opere «sempre borderline». Quello dell’uomo scorticato, come la figura dell’Orage (1947), esposto alla fondazione Maeght nella mostra che ne consacrerà la fama, cui prestò le fattezze il modello di altre sue sculture, Nardone, figura corpulenta che Germaine manipola artigliandogli le mani, sfigurandone il volto, gonfiandone le viscere e butterandone la pelle. Marino Marini definì appunto il segno di Germaine “estetica dell’artiglio”. Mentre il fotografo Brassaï confessò che varcare lo studio della Richier era come entrare in un «mondo straniero dopo le devastazione del diluvio atomico» popolato di figure «monumentali, scarnificate, gli occhi smarriti, le braccia pendenti, tremanti ancora di paura». E Germaine l’11 maggio 1950 firmò l’appello di Stoccolma contro la guerra atomica. Nel 1953 eseguì una serie numerosa di bronzetti intitolati Guerrieri, che si scompongono come fossero presi dalla lotta con il Leviatano.

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou - © Adagp, Paris 2023 Photo: Centre Pompidou / Hélène Mauri

In effetti, quella catastrofe, abbattendosi sul Giappone aveva segnato un prima e un dopo nella scultura di Richier: il modo d’anteguerra, realistico, costruito tenendo a portata di mano compasso e pantografo, lavorando la terra, il gesso e poi il bronzo («la resurrezione » come diceva); e il momento postbellico, surreale più che surrealista perché dalla carne dell’uomo si entra nella metamorfosi della materia postuma, per così dire, della scultura, sublimata in reliquia dei sopravvissuti. Dolorosa manifestazione che deforma l’apparenza umana ma scava in profondità, come la tragica apparenza dei morti di Pompei sotto la lava, segni, secondo il potente accostamento del teologo Cornelio Fabro, della morte-viva che eleva un inno all’umano contro la morte-morta che generò la distruzione atomica in Giappone. César scrisse che quelle di Germaine Richier erano “sculture interne”, come se il corpo venisse aperto da quel bisturi che cercava le forme tumorali evocate da Ponge.

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou

Una sala della mostra di Germaine Richier al Centro Pompidou - © Adagp, Paris 2023 Photo: Centre Pompidou / Hélène Mauri

Di fatto, nella grande attrazione che provava per la natura e gli insetti, per le reliquie abbandonate, magari tronchi giunti a riva o pietre, pelli di rettili, scheletri di pipistrelli, qualcosa l’avvicina a Picasso quando raccoglie cose sulla spiaggia di Antibes (nel cui museo esporrà la sua ultima opera, La Scacchiera, grande in dialogo con Satiro fauno e centauro col tridente dello spagnolo) o a Moore e alle sue forme “naturali”, ciò che sta tra l’objet truvé e le reliquie abbandonate. Ma le cose trovate di Germaine hanno il conio indelebile del sentire esistenzialista, ravvivato da una tragicità materna. Partire dalla radice delle cose, non denota, a mio avviso, in lei una propensione all’ibrido e nemmeno al panteismo. Si tratta semmai di quella sacralità che porta alla reintegrazione dei viventi e persino dell’essenza minerale, come in Grünewald, dove, secondo Testori, poteva cogliersi «il massimo d’unicità e quasi di concentrazione della natura vegetale, di quella animale e di quella umana» sul cui corpo si vedono «non più solo cicatrici e ascessi ma «oscuri morbi, ferite di tronchi strappati, croste di clorofille malate ». Ma Germaine va oltre e la sua carne è come una mineralizzazione dell’essere che rende postuma ed eterna la morte-viva di Pompei. E il teologo Heinrich Pfeiffer quarant’anni fa concluse, a propósito del crocifisso degli ultimi, “Cristo di miseria”, come lo definì l’autrice, che quell’opera non diede scandalo agli ammalati, per i quali era stato voluto, ma soltanto ai devoti fermi nei loro schemi. Un tema che accompagna sempre le arti quando aprono spiragli che diventano squarci di inaudita novità.

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