mercoledì 3 ottobre 2012
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È uscito ieri in libreria «Economia della crisi. Il bene dell’uomo contro la dittatura dello spread», il nuovo libro di don Gennaro Matino (nella foto) edito da Baldini & Castoldi (pp. 132, euro 10,90), dal quale riprendiamo uno stralcio in questa pagina. Il testo servirà come strumento di lavoro a latere della riunione annuale dei giovani industriali a Capri e in novembre verrà presentato anche alla New York University. Per lungo tempo i teologi non hanno saputo affrontare la questione economica e le sue dinamiche, sottraendosi dall’affrontare una scienza che comunque riguarda l’uomo. Eppure, i problemi posti nei secoli scorsi dalla rivoluzione industriale avevano sollecitato, dalla Rerum novarum in poi, la dottrina sociale dei pontefici. Dal Concilio Vaticano II si è compresa l’urgenza di un ripensamento teologico dell’etica sociale, capace di individuare i fattori che determinano la vita economica per restituirle un volto umano. Purtroppo il Vaticano II, autentica rivoluzione, nella sua attuazione ha dato più spazio a riforme liturgiche che a prassi evangeliche. Pur riconoscendo l’intrinseco valore delle realtà temporali e la conseguente autonomia della scienza economica, i Padri conciliari richiamano l’uomo all’antico e quanto mai attuale monito di Paolo: «Non vogliate adattarvi allo stile di questo mondo» (Rm 12,2). E si adatta allo stile di questo mondo chi usa gli uomini come mezzi e non come fine; chi guarda solo al profitto di una operazione commerciale senza guardare alle conseguenze negative che possono derivarne e fa dell’economia una scienza diabolica. Quanti prodotti vengono immessi sul mercato in risposta a bisogni volutamente indotti? Non è etico manipolare le coscienze con subdoli meccanismi di persuasione occulta, determinando forme di dipendenza pericolose almeno quanto le droghe che la società ipocritamente condanna.Se si pensa a quanto in questi ultimi decenni la legge della domanda e dell’offerta abbia usato e sfruttato il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, perché facilmente manipolabile, ci si accorge di quanto certa economia sia lontana da ogni principio etico. Un tempo i bambini non erano oggetto preponderante del mercato della moda, né a scuola si gareggiava per quaderni e zainetti firmati. Oggi a 5 anni, se non prima, un bambino si sente già emarginato e inadeguato se la famiglia non può permettersi di comprargli le scarpe firmate o lo zainetto alla moda. Usare i bambini come mezzo per il maggior profitto, e non come fine di una produzione che guardi a una sana crescita fisica, psichica, morale dell’infanzia, è davvero diabolico. Ciò non significa che non vi possa essere un equilibrio tra etica ed economia, tra interesse personale e bene comune, come se le leggi del mercato fossero incrollabili e intoccabili. Che la produzione miri al profitto è naturale, l’elemento diabolico si insinua nella misura in cui in nome del profitto si è pronti a produrre qualsiasi aberrazione. È di fronte a ciò che la riflessione teologica deve richiamare gli uomini all’etica e all’intramontabile insegnamento del Vaticano II: «Anche nella vita economico-sociale – si legge nella Gaudium et Spes – sono da tenere in massimo rilievo e da promuovere la dignità della persona umana, la sua vocazione integrale e il bene dell’intera società.L’uomo, infatti, è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale» (n. 63). Se così fosse stato, se non si fosse dimenticato che l’uomo è sempre e solo il fine di ogni attività umana, l’economia odierna con gli attuali mezzi di produzione avrebbe potuto essere la scienza più adatta a migliorare le condizioni di vita di intere popolazioni. Purtroppo il profitto, e non l’uomo, è stato l’unico fine, l’unico dio adorato. La crisi dei mercati, il tradimento dell’economia sono allora segno di altro, punto di arrivo della perdita di ogni valore. Già sul finire degli anni Sessanta, proprio il boom economico destava nei Padri conciliari motivi di seria preoccupazione: «Molti uomini – si legge ancora nella Gaudium et Spes – soprattutto nelle regioni economicamente sviluppate, appaiono quasi unicamente retti dalle esigenze dell’economia, cosicché quasi tutta la loro vita personale e sociale viene permeata da una mentalità economicistica... In un tempo in cui lo sviluppo della vita economica, orientata e coordinata in una maniera razionale e umana, potrebbe permettere una attenuazione delle disparità sociali, troppo spesso essa si tramuta in una causa del loro aggravamento o, in alcuni luoghi, perfino del peggioramento delle condizioni sociali dei deboli e del disprezzo dei poveri» (n. 63). D’altronde, da anni si avverte l’esigenza di fare uscire l’economia dal vicolo cieco del profitto a ogni costo, come scriveva Marshall: «L’economista, come qualunque altra persona, deve preoccuparsi dei fini ultimi dell’uomo».Infatti, commentava Brown, «la nostra concezione dell’economista di professione può ancora divenire quella di un economista attrezzato a comprendere il genere umano e non l’uomo economico nello svolgersi della vita di tutti i giorni». Anche Schumacher, già nel 1977, affermava: «Lo studio dell’economia è troppo ristretto e frammentario per condurre a validi approfondimenti, a meno che non sia completato da uno studio complementare della metaeconomia. La drammatica conseguenza di dare più valore ai mezzi che ai fini (questo, come Keynes conferma, è l’atteggiamento della scienza moderna) è la distruzione della libertà e capacità dell’uomo di scegliere i fini che realmente preferisce; lo sviluppo dei mezzi detta la scelta dei fini».
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