martedì 13 dicembre 2022
Dell’autore di “1984” arrivano, per la prima volta in italiano, due racconti ambientati all’epoca del suo servizio nel Paese orientale come membro della Polizia imperiale da cui presto si dimise
Massacri a Minhla, nel 1885, durante la terza guerra anglo-birmana

Massacri a Minhla, nel 1885, durante la terza guerra anglo-birmana - WikiCommons

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Non credo avesse ragione George Orwell a criticare Graham Greene dopo aver letto il romanzo Il nocciolo della questione: da agnostico qual era non sopportava l’arroganza dei cattolici che si credono superiori agli atei perché pensano di capire meglio il dramma della lotta fra il bene e il male. Greene non pare proprio che soffrisse di questo complesso di superiorità, tormentato dal dubbio com’era. Ma senza dubbio Orwell coglieva nel segno rispetto a tanti cristiani benpensanti, poco disponibili nella loro ottusità a esercitare l’arte del dialogo a tutto tondo. Orwell era un intellettuale scomodo, un romanziere impuro come lo definì Giuseppe Bonura, critico letterario di Avvenire. Un autore tuttora seguitissimo, dato che i suoi capolavori La fattoria degli animali e 1984 non smettono di essere letti e ammirati, con continui e frequenti rimandi al mondo del cinema e delle serie tv. Le sue distopie sono attualissime e, come ha scritto Alain Besançon nel saggio La falsificazione del bene (il Mulino, 1987), in cui pone a confronto Orwell e Solov’ev, « 1984 offre l’incredibile spettacolo di un potere diretto dal demonio, che non si cura nemmeno più di travestirsi ad uso degli uomini. Vuole soltanto spezzarli. Ne resta ormai solo uno da spezzare ed è Winston, il più debole di tutti». Winston è l’ultimo uomo, il campione dello scontro fra il bene ed il male e viene a occupare, nella visione dell’autore inglese, una posizione cristica. « L’apocalisse secondo Orwell – dice ancora Besançon – è un’apocalisse in versione protestante. Insomma, dimostra che l’uomo è incapace di produrre la propria salvezza. Orwell lo aveva provato personalmente, questo autore che si era mescolato ai barboni di Parigi e di Londra e aveva combattuto al fianco dei miliziani di Spagna. Niente di più antipelagiano di 1984, dove la natura umana appare definitivamente corrotta. È un’apocalisse della sola gratia. Poiché la grazia viene meno, è un’apocalisse in negativo ». Eric Blair - questo il vero nome di Orwell – di sé diceva di appartenere alla lower upper middle class. Il padre era funzionario dell’amministrazione delle Indie e lui stesso era nato in India, si era trasferito a Londra per gli studi ed era tornato nella grande colonia per arruolarsi nella polizia imperiale in Birmania. Anarchico socialista, di temperamento solitario, fu un ribelle che non poteva accettare le ingiustizie enormi che vedeva con i suoi occhi, tanto da dimettersi e, come detto, far ritorno in Inghilterra dove condivise la vita dei miserabili di Londra. Poi di Parigi, quindi si arruolò nelle milizie antifranchiste durante la Guerra civile spagnola, dove venne ferito gravemente. Fu lì che comprese la violenza dell’illusione comunista; convalescente a Barcellona, vide i suoi amici e compagni torturati e uccisi dalla polizia segreta legata al Cremlino che voleva impiantare una dittatura comunista in Spagna. Da allora, divenne un acerrimo nemico di tutti i totalitarismi, cogliendo prima di altri le analogie fra i due regimi, quello nazifascista e quello comunista. La fattoria degli animali e 1984 sono due feroci satire del regime staliniano in particolare. Con la sua violenza inaudita, capace di disintegrare l’intimità della persona attraverso il lavaggio del cervello. L’energia visionaria che sprigionano le due opere che l’hanno reso famoso era già presente negli anni trascorsi in Birmania, in cui si confrontò con le angherie del colonialismo. Ne rimase traccia nel romanzo breve Giorni in Birmania, del 1934, in cui il protagonista, il commerciante di legnami John Flory, finisce per togliersi la vita per non aver saputo conciliare la sua individualità con il mondo degli oppressi. Sempre legato a quel periodo, ora di Orwell l’editrice Ibis manda in libreria il volumetto In Birmania (pagine 96, euro 8), che raccoglie due racconti e un articolo di giornale. I racconti si intitolano Quella volta in cui sparai a un elefante e Un’impiccagione e vedono il narratore, molto probabilmente da identificare con lo stesso autore, alle prese con due episodi della sua vita militare. Nel primo, egli è quasi costretto dagli indigeni a colpire a morte col fucile un elefante imbizzarrito che aveva messo a ferro e fuoco un villaggio. Nonostante i contadini birmani che lo abitavano odiassero ispettori e poliziotti inglesi, e nonostante il protagonista non avesse nessuna voglia di uccidere l’elefante, lo sguardo dei presenti e la necessità lo obbligano a farlo. Anche il secondo episodio scuote la coscienza di chi lo racconta per «il mistero, l’ingiustizia inspiegabile di spezzare una vita quando è ancora nel pieno del suo flusso». Come ben spiega lo stesso Orwell nell’articolo Lo sfruttamento di una nazione: l’impero britannico in Birmania, uscito nel 1929 sul settimanale francese Le progrès civique, il depauperamento delle risorse umane, agricole e minerarie della Birmania è totale. E ottenuto con il minimo sforzo: con una guarnigione di 12.000 uomini armati, perlopiù di origine indiana fra l’altro, il governo di Sua Maestà riesce a sottomettere una popolazione di 14 milioni di persone. Servendosi anche della burocrazia birmana stessa. In cambio, gli inglesi costruiscono strade e canali, aprono scuole e ospedali, fanno rispettare la legge e l’ordine. I birmani sono in larghissima maggioranza contadini non istruiti e in realtà traggono ben pochi benefici dalla presenza del conquistatore, che dal 1882 ha il pieno controllo del Paese. « A essere onesti, è vero che gli inglesi stanno rubando e depredando la Birmania senza alcun ritegno», sentenzia Orwell. Stagno, tungsteno, giada e rubini sono i minerali che vengono rapinati, ma la ricchezza più grande, che fra l’altro permette di sfamare la quasi totalità della popolazione, proviene dalle risaie. Pur appartenendo all’impero coloniale, lo scrittore non usa mezze parole e condanna in toto la politica del governo inglese, la stessa adottata in India peraltro: « Il rapporto che i birmani hanno con l’Impero britannico è quello di schiavo e padrone».

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