giovedì 14 aprile 2016
Kobe Bryant dice addio alla sua maniera, firmando 60 punti nel successo casalingo dei suoi Los Angeles Lakers per 101-96 su Utah. Il «Black Mamba» gioca 42 minuti e tira con 22/50 dal campo (6/21 da tre) servendo 4 assist e catturando 4 rimbalzi. GUARDA LE FOTO DELL'ULTIMA PARTITA
Kobe Bryant, l'addio ai parquet di un campione pentito
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Se fosse solo una questione di numeri, allora dovremmo limitarci a una serie impressionante di record. Ma Kobe Bryant, il fuoriclasse dei Los Angeles Lakers che questa notte ha dato l’addio ai parquet, non è stato soltanto un campione di basket, ma un vero fenomeno planetario. Il più giovane atleta a dare il nome a un videogame. Uno che in Cina supera forse in popolarità addirittura Mao. Di sicuro l’unico che si è avvicinato per classe, voglia di vincere e risonanza mediatica al più grande cestista di sempre, quel Michael Jordan di cui in questi anni ha colmato il vuoto. A 37 anni lascia un giocatore che può fregiarsi di cinque titoli Nba con i suoi Lakers, l’unica squadra della sua ventennale carriera; terzo marcatore di sempre con oltre 33mila punti (superato perfino Jordan); autore di ben ottantun punti in una sola partita (nel 2006 contro i Toronto Raptors). Spiccano tra i suoi allori, anche i due ori olimpici (Pechino 2008 e Londra 2012). Unico suo rimpianto, forse, non poter essere in campo a Rio. Se però a Los Angeles ha legato la sua gloriosa carriera, non possiamo far a meno di ricordare con orgoglio che la pallacanestro l’ha appresa da noi. Nato infatti il 23 agosto 1978 a Filadelfia, ha vissuto dai sei ai tredici anni in Italia per via del padre, Joe, che giocò con Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Un legame con la nostra gente che non si è mai spezzato, soprattutto con Reggio Emilia dove è tornato più volte anche solo per una pizza: «Per sentirmi di nuovo uno di loro». Sposato dal 2001 con Vanessa Cornejo, alle due figlie ha dato nomi italiani: Natalia Diamante e Gianna Maria Onore.

Dell’Italia ci tiene a conservare la lingua: «La alleno parlandola con le mie sorelle e le mie figlie che la stanno imparando perché consapevoli che un pezzo della storia del loro papà è stata scritta qui». E la passione per il calcio, perché da sempre tifa Milan. Poteva forse ritirarsi già un anno fa per colpa di seri infortuni. Ma ha voluto farlo in maniera insolita: con una lettera toccante e un tour strappalacrime in tutti i palazzetti applaudito anche dai suoi storici avversari. È apparsa così anche la commozione sul suo volto spesso duro e arrogante, emblema di un ego smisurato. Eppure anche lui, campione acclamato e miliardario, ha dovuto ammettere di non essere infallibile.

Nel 2003, all’apice del successo, ha toccato il fondo per l’accusa di stupro mossa da una cameriera: il giocatore ammise il rapporto ma negò la violenza. Il giudice archivierà poi l’accusa di stupro, ma lui era piombato nella disperazione: «Avevo venticinque anni. Ero terrorizzato. L’unica cosa che mi ha aiutato davvero durante quel processo – sono cattolico, sono cresciuto come cattolico, i miei figli sono cattolici – è stato parlare con un sacerdote. E lui mi disse: “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare, e ora è tutto nelle sue mani. È una cosa che non puoi controllare, quindi lascia stare”. E quello è stato il punto di svolta». 

Per la sua infedeltà ha rischiato il divorzio dalla moglie, ma nel 2013 hanno annunciato di essersi riconciliati. La vicenda però l’ha segnato anche per un altro drammatico particolare rivelato nel documentario Muse: «Durante quel periodo stavamo aspettando il nostro secondo figlio e c’era così tanta tensione e tanto stress che lei ebbe un aborto spontaneo. Perse il nostro bambino. È qualcosa di davvero terribile, è molto difficile ripensare a questa cosa». Ma Kobe non dimentica: «Tutto ciò è avvenuto a causa mia. È una cosa con cui devo fare i conti ogni giorno, me la porterò dentro per sempre... Vanessa è stata fantastica, avrebbe potuto lasciarmi e portarmi via metà del mio patrimonio, ma ha deciso di credermi e di restarmi vicino». Un’assunzione di responsabilità, che a conti fatti, pare proprio il canestro più importante della sua vita. 

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