martedì 17 agosto 2021
Monumentale edizione critica delle “Poesie e prose” dell’autore greco: ogni cosa è stilizzata e resa artificiale, allontanata dall’arte perché ogni cosa in lui per essere poetica deve essere lontana
Il poeta Kavafis

Il poeta Kavafis

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Il lavoro di impiegato giova alla poesia. Bastino i nomi di Franz Kafka, Fernando Pessoa e Konstantinos Kavafis, attivi nello stesso giro d’anni, il primo trentennio del Novecento. Giova sempre che uno sia Pessoa, Kafka o Kavafis. E in grado di pagarne il prezzo troppo alto: la vita stessa. Tre esistenze povere non tanto di eventi, ma di soli fatti. Eppure così irraggiungibili in profondità. Kavafis è quello che meno inquieta dei tre, è l’enigmaticamente sereno. Solo in Emily Dickinson si può trovare una simile indifferenza alla sorte dei propri versi. Cominciò a far versi tardi, poco meno dei quarant’anni. A trentasette anni pubblicò un fascicoletto di quattordici poesie. Dopo sei anni uno di ventuno, ma il conto è ingannevole. Nelle ventuno c’erano ancora le prime quattordici. I fascicoli erano composti delle poesie che andava stampando sciolte per gli amici. Indifferenza per la destinazione dei propri versi vuol dire uguale indifferenza per ciò che ne dicono in critici. La conseguenza è una poesia singolarmente costante nei toni, nello stile, nel lessico. Poesia che pensa solo a se stessa, senza evoluzioni, per trenta o quarant’anni. Saltano le cronologie e i primi versi somigliano agli ultimi. Le edite alle inedite, alle rifiutate e alle disperse. A queste categorie consuete si aggiungono poi in Kavafis, le “nascoste”.

Filologia vuole che ogni venti o trent’anni si torni sui grandi con tutti i mezzi e le forze possibili. Due anni fa ci aveva pensato Paola Maria Minucci per Donzelli. Ora colgono la sfida, per Bompiani, Renata Lavagnini e Cristiano Luciani ( Poesie e prose, pagine 2.912, euro 48) aggiungendo al volume una scelta delle prose, delle note critiche, delle lettere, premettendo a ogni singolo testo un cappello introduttivo per ritardare il piacere della lettura che sta per venire o per renderlo più complesso. Con i grandi però vale tutto. Resistono a ogni contatto, sfida, attacco. Così Risi e Dalmati (1968) scelsero prima 55 delle poesie, poi (1992) altre venti arrivando a una metà del totale canonico, di 154, per una edizione commentata che è ancora un esempio. Pontani le aveva già tradotte tutte, Crocetti quasi tutte. Ceronetti che non bada a riguardi di nessun tipo, ne prende 37 dove gli piace (anche tra le “nascoste”) e le traduce alla sua maniera, nervosamente e impeccabilmente. Rifà un suo piccolo canone arbitrario e più che legittimo a forza di poesia. Altri ne traducono un gruppetto, Montale una. Ma vale tutto e questa edizione Bompiani deve entrare di diritto, prima ancora di sfogliarla, tra l’imprescindibile sul poeta alessandrino. Vale tutto anche se nulla basta. Kavafis resta imprendibile per troppa chiarezza.

Kavafis così profondamente di Alessandria (della presente e della passata) è vissuto in un doppio esilio: la poesia (e l’amore che la nutriva) e l’antichità. I corpi e le pagine, le idee. Ogni cosa in lui per essere poetica dev’essere lontana. È stato osservato che, tranne in un caso, “Mare al mattino”, in lui è del tutto assente la natura. Ogni cosa è stilizzata e resa artificiale – allontanata – dall’arte. L’uomo che ironizza spesso sugli eruditi, conduceva tanto avanti l’erudizione propria da dileguarla e far rinascere le figure che lo ispiravano (il giovane Nerone, Antonio). Tutte vivono casi di coscienza. Tutte sono un riflesso del poeta. Tutte si ritrovano davanti a un volere e non potere (tornano i nomi di Pessoa, Kafka). Alcune perdono la battaglia con la storia vilmente, altri con dignità. E il destino a cui sono vincolati i personaggi contemporanei e i passati (e il personaggio-poeta) è il fato degli antichi. Più incombente del destino e a cui soggiacciono gli stessi dei. Anche da qui il senso di immobilità presente ovunque.

La Storia è un continuo movimento, in Kavafis tutto è a-storico. L’individuo da una parte e la Storia dall’altra, come su due cammini paralleli. La Storia prevale ma l’individuo non l’ammette mai veramente. Distoglie lo sguardo, o la dà per scontato e cerca di consolarsi come può: con l’amore e i piccoli poteri, le ricchezze. O con l’arte e i ricordi (il poeta). L’unica vittoria sulla storia diventa annullarla facendola ridiventare presente, rendendo poesia il ricordo, vita che non era più vita. Ricordare la propria gioventù o ricordare un evento del primo secolo dopo Cristo o del 1100 implicano in lui lo stesso sforzo, come fossero a una distanza simile. Lontanissima può essere la gioventù del poeta, vicini i fatti che legge negli storici. Ma in realtà sono a una stessa lontananza, rifatta presente per virtù di poesia.

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