martedì 24 novembre 2020
Il medico delReich sosteneva che le pratiche eutanasiche naziste servivano a purificare la nuova Germania da inestetismi come malattia e difformità. Un concetto diffuso nella mentalità attuale
Il medico nazista Karl Brandt

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I fondamenti dell’estetica sono inespugnabili e mutevoli per natura. Talmente eterogenei da apparire non di rado inconciliabili. Quella bolla altrettanto fluttuante che chiamiamo contemporaneità dovrebbe essere capace di accettare tutta la gamma di sfumature che ne può derivare, senza per questo escludere scelte e senso critico.

Non è così. In questi giorni la lettura di una raccolta di documenti sulle cavie dei lager e gli “esperimenti” dei medici delle SS, ragioneria di sadismo che si voleva elevare a scienza, mi ha dato lo spunto per una riflessione che va oltre le peculiarità dei vari fronti estetici. In un capitolo dedicato alle giustificazioni teoretico scientifiche delle pratiche cosiddette eutanasiche dei nazisti si cita uno stralcio della difesa al processo di Norimberga di un certo Karl Brandt.

Mediocre chirurgo tedesco, assurto alle glorie del Reich in qualità di amministratore dell’Aktion 4, la morte compassionevole programmatica, Karl Brandt, nel modo disinvolto con cui tratta le sue motivazioni dello sterminio, definisce per antitesi cosa è il bello secondo un principio considerato ancora cardine per la maggioranza delle società. Nella sua apologia constata che in natura si verificano processi biologici, che, pure essenziali, non sono “estetici” ma addirittura ripugnanti. Porta come esempio il processo digestivo.

L’iter della digestione nel suo complesso non è decorativo, eppure è fonte di vita. Eppure è prezioso. In un ragionamento tortuoso collega questo suo preludio alle ragioni della eutanasia di Stato, anticamera dello sterminio. Sono due i profili di interpretazione che lui stesso fornisce. Da un lato riconosce che i metodi per dare la morte a coloro che presentano una qualunque disabilità o difformità, attraverso fame, zyklon b, fenolo, barbiturici, non sono certamente “estetici”. Si devono attuare, ma si devono “nascondere” alla società “civile.

Brandt sostiene che il medico nazista assume su di sé l’incarico di supplire la “natura” facendosi organo digestivo per realizzare questo compito antiestetico, impresentabile ma fondamentale per le glorie del Reich millenario. Il medico nazista, eroicamente, diviene antiestetico pro tempore per esercitare il suo compito. Contestualmente, con riferimenti specifici, afferma che la difformità, il problema, la malattia, dannosi per il processo di purificazione della nuova Germania, sono anch’essi “antiestetici”, non gradevoli per il benpensante così avvezzo ad avvolgere l’esistenza con un involucro “bello”, “confortante”, “rassicurante”. Eliminare ciò che non adorna è parte essenziale del processo di estetizzazione del sociale.

Non vi è reale coerenza in questa logica perversa. Tuttavia ne emerge il tratto unificante ed essenziale. L’urgenza determinata dallo “scandalo” di tutto ciò che turba la cosmesi nella vita del borghese. Una urgenza che richiede risposte pronte e definitive. Nella nostra contemporaneità, che si immagina evoluta, liberale e avulsa dalle aberrazioni, non sono poche le derive in questa direzione, che attentano alla vita umana, contraddistinte dal medesimo raziocinio capzioso. La liberazione dal “fastidio” di ciò che non è “bello” per la vista è spesso preponderante rispetto alla dichiarata comprensione per la sofferenza altrui. Karl Brandt ricorda a tutti quelli che intendono l’estetica come il maquillage irrinunciabile, autoassolutorio e zuccherato di una società eletta per portafoglio e potere, che questa stessa visione era uno dei fulcri fondanti della ideologia nazista.

Portata agli estremi, si dirà. Eppure la confusione pretestuosa della bellezza con la gradevolezza, la eleganza e la conseguente accettabilità sociale, prende col tempo la forma di un sistema di pensiero totale. Di conseguenza la sofferenza, i sofferenti, i diversi in generale, coloro che vivono contesti difficili, non disinfettati, quelli che puzzano, quelli che sono sporchi, diventano fastidi che devono sparire dalla vista, dal proprio salotto e infine dal sociale.

Coloro che considerano la bellezza il bello che deve allietare le giornate del borghese, il belletto formale gentilmente anestetico, si confortano e sostengono a vicenda. Questo non ha nulla a che fare con la bellezza. Perché porta in sé la nozione di elezione e con essa un presunto diritto a decidere il destino altrui. La cravatta elegante, come il pensiero à la page vengono promossi dallo status di oggetti più o meno funzionali e gradevoli a stigma di elezione sociale e umana.

Karl Brandt, nella sua difesa, sosteneva che la digestione non è bella, perché non è presentabile. Idea ipocrita dell’uomo-scatola. Che vale se è ben rivestita, e il cui meraviglioso meccanismo, cui deve l’esistenza, scatena invece un pudore vittoriano. La digestione è una delle infinite manifestazione della bellezza autentica, processo mirabile e vitale in ogni suo singolo passaggio. Bellezza non è gradevolezza. Bellezza è vita, ma vita autentica. Bellezza è verità. Patrimonio di ognuno, inalienabile, prezioso e profondamente radicato in una estetica profonda, che non sempre allieta ma sempre rende vivi, di cui non siamo e per fortuna non saremo mai veramente nè giudici né gestori né, tanto meno, padroni.

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