sabato 19 aprile 2025
Due saggi degli studiosi Filiu e Kamel fanno il punto del conflitto tra israeliani e palestinesi. La sconfitta dei secondi non estinguerebbe le loro rivendicazioni. Occorre riconoscersi
Il ragazzo palestinese Saeed Abdel Ghafour, che ha perso la vista da un occhio a causa dell'esplosione di un ordigno, si trova di fronte alle macerie di un edificio distrutto, a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.

Il ragazzo palestinese Saeed Abdel Ghafour, che ha perso la vista da un occhio a causa dell'esplosione di un ordigno, si trova di fronte alle macerie di un edificio distrutto, a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. - Reuters / Hatem Khaled

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Durante la Seconda guerra mondiale Jacques Maritain, che si trovava negli Stati Uniti e si opponeva con i suoi scritti al regime filonazista di Vichy, sosteneva che la sopravvivenza delle democrazie era la «questione in gioco nella lotta». Per il filosofo cattolico la democrazia era spesso caotica, piena di tensioni e contraddizioni, dovute al fatto di avere elezioni libere ed eque e una stampa libera nonché al considerare tutti uguali sotto lo Stato di diritto, alla libertà religiosa consentita a tutti, alla protezione delle minoranze, eccetera. Fra difetti e pregi, tutto ciò era visto come il fiorire della civiltà cristiana. A opporsi era la tentazione dell’uomo forte, ritenuto in grado di eliminare eccessi, sprechi, ritardi che le democrazie liberali portano con sé. Oggi la situazione sembra ripetersi con le democrazie minacciate in tutto il mondo: non solo in regimi dittatoriali o autoritari come Cina, Russia, Iran e Turchia, ma persino nel cosiddetto Occidente avanzato, in Usa e Israele. Un’America chiusa in sé stessa e intollerante, senza cultura, come quella che sta avanzando con la presidenza Trump, rappresenta un incubo per il mondo.

Venendo a Israele, per comprendere come il conflitto attuale a Gaza stia compromettendo il futuro della democrazia - se non persino il credito che la nazione si era guadagnata con l’Olocausto – è utile prendere in mano due recenti volumi pubblicati da Einaudi: Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto di Jean-Pierre Filiu (pagine 456, euro 32,00) e Israele-Palestina in trentasei risposte di Lorenzo Kamel (pagine 200, euro 13,00). Il primo saggio ripercorre la storia della nascita di Israele a partire dal sionismo di fine Ottocento - rilevanti le pagine dedicate al sionismo cristiano -, con i primi insediamenti di ebrei in Palestina e la realizzazione del sogno di uno Stato, legittimata dall’Onu ma avvenuta nel 1948 a scapito della popolazione palestinese. Nel 1922, quando la Società delle Nazioni attribuì alla Gran Bretagna un mandato in quei territori un tempo parte dell’impero ottomano, gli abitanti erano al 90 per cento arabi. «Un secolo dopo – constata Filiu – il numero degli arabi e degli ebrei si equivale ma lo Stato di Israele copre il 77 per cento della superficie e occupa la maggior parte del resto». Lo studioso esamina poi i tre punti di forza israeliani e i tre punti di debolezza palestinesi emersi in questi decenni, mentre gli sforzi di pace passati attraverso vari accordi, da Oslo a Camp David, sembrano a un punto morto.

Lo sviluppo anche culturale e non solo politico del sionismo, l’essere uno Stato che si accredita come l’unica democrazia del Medio Oriente, circondata da nazioni arabe perlopiù autoritarie e fondamentaliste, grazie al pluralismo, alla stampa libera e alle istituzioni – immagine oggi purtroppo pesantemente messa in discussione dal governo Netanyahu - e la strategia dei fatti compiuti sono stati i pilastri dell’azione israeliana che si sono nutriti delle criticità della causa palestinese: l’illusione della solidarietà araba, la dinamica delle fazioni interne in lotta feroce fra loro, il paradosso del sostegno internazionale - a suon di miliardi di dollari utilizzati per acquistare missili e armi contro Israele invece che per lo sviluppo economico, sociale e culturale del proprio popolo, che non a caso ha iniziato a contestare Hamas – al fondo però incapace di frenare l’erosione dei diritti dei palestinesi. «Ma la sconfitta storica del nazionalismo palestinese – dice ancora Filiu – non implica che Israele abbia vinto, nel senso di essere riuscito a estinguere tutte le rivendicazioni del popolo perdente. Il fallimento delle élite palestinesi non ha infatti compromesso l’intensità dell’attaccamento della popolazione palestinese alla sua terra».

L’orrore della mattanza terrorista di Hamas del 7 ottobre e la vendetta israeliana che ha ridotto la Striscia di Gaza a un «paesaggio apocalittico» rappresentano l’ultimo volto di un conflitto che «non è un gioco a somma zero in cui le perdite dell’uno si traducono meccanicamente nelle vincite dell’altro». Per impedire ora che questa spirale devastante diventi una fatalità occorre cominciare a mettere da parte i paraocchi ideologici che influenzano le parti in causa e i loro rispettivi sostenitori; poi, si tratta di riprendere gli sforzi diplomatici a favore della pace. Se, come rileva Kamel al termine del suo libro, in certe occasioni della storia occorre avere il coraggio di prendere posizione, bisogna anche saper guardare all’altro e addirittura essere disposti a cambiare parere in nome della giustizia, come voleva Simone Weil. Se ciascuno ragiona solo nella prospettiva della propria comunità, finendo per consolidare la narrativa del proprio gruppo di appartenenza, spesso contro l’altro, il vicolo cieco della violenza finirà sempre per prevalere.

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