lunedì 22 luglio 2013
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«Nella mia vita ho visto tutto, e ho capito una cosa. Che bisogna calmarsi». Mentre osserva la campagna toscana, fumando una sigaretta al fresco di un portico, Otar Iosseliani sembra ripercorrere a ritroso la sua vita con uno sguardo ironico e, al tempo stesso, malinconico. A 79 anni il regista georgiano, cui il Capalbio Cinema dedica una retrospettiva in occasione del proprio ventennale, può ben dire di avere vissuto mille vite. Nato a Tblisi, diplomato al conservatorio in composizione e direzione d’orchestra e poi in cinematografia, ha dovuto combattere contro l’ostruzionismo del regime che bloccava i suoi film. Dopo aver mollato tutto per fare il marinaio e l’operaio in fabbrica, Iosseliani ha trovato invece libertà e successo in Francia, dove si è trasferito nei primi anni 80 mietendo premi e successi. Anche se, ora, qualche rimpianto ce l’ha vista la crisi imperante: «L’Unione Sovietica i film almeno te li lasciava girare e li finanziava. Poi impediva che andassero in sala, ma almeno qualcosa la faceva». Nella nuova patria, però, è stato possibile esprimersi, girare capolavori ricchi di umanità vera come Caccia alle farfalle.Ma anche delle chicche, come quella scovata dal festival del cortometraggio di Capalbio (Grosseto), Un piccolo monastero in Toscana girato per la tv francese nel 1988 presso l’abbazia di Sant’Antimo, in provincia di Siena. Si tratta di una delle prime opere girate da Iosseliani in Occidente, sul monastero nato come abbazia imperiale nell’814 a opera di Lodovico il Pio, poi abbandonato e usato nel 1970 da Franco Zeffirelli per alcune scene di Fratello sole, sorella luna e poi tornato a rifiorire grazie a una piccola comunità di monaci agostiniani francesi. Ed è proprio la vita quotidiana di questi cinque monaci, al centro dello splendido mediometraggio (54 minuti) di Iosseliani. Protagonisti padre André Forest (allora priore), padre Etienne Roze, frate Olivier Nelle e frate Jean Charles Leroy. «Io non sono credente – racconta Iosseliani – ed ero curioso di capire. Ben quattro di loro erano stati boy scout e avevano avuto la chiamata tutti insieme. Le regole erano molto rigide, le preghiere e il rituale ripetuti 5 volte al giorno. Una vita molto dura per loro, una formalità che non riesco ancora capire. Ma al tempo stesso c’era qualcosa di così semplice, così adorabile in quella loro esistenza fra ritualità e lavoro che risultava toccante, specie in quei canti meravigliosi». Iosseliani lascia la sigaretta per intonare un canto gregoriano, rispolverando le sue doti di musicista.Il film è un autentico spaccato di vita, cui il regista dà spessore con la sua telecamera, passando dalla giornata silenziosa dei monaci, a un ritratto vivace e colorito dei contadini della campagna toscana. I titoli di coda dichiarano l’intenzione del regista di tornare vent’anni dopo a vedere come si è evoluta la storia del monastero, ma non è stato più possibile, anche se lui negli anni è tornato a trovare più volte la comunità. E anche se gioca a fare lo scettico, il regista georgiano (guai a dire "russo") confessa il suo amore per «la semplicità di san Francesco. I pochi amici che ho sono come lui, non vogliono rubare a nessuno, agiscono con sincerità» racconta illuminandosi quando parla degli affreschi di Giotto ad Assisi: «È l’artista più grande, pulito, trasparente. Come lui non c’è nessuno». Come non c’è nessuno come Karol Wojtyla. «Lo sa che ero amico di Giovanni Paolo II?» aggiunge sorridendo. Gli occhi gli si inumidiscono, ma su questo rapporto, di stima profonda fra il papa polacco e il regista georgiano, accomunati dalla sofferenza causata dalla dittatura, preferisce tacere con pudore.Ad addolorarlo, piuttosto, è la situazione del cinema di oggi. «Non c’è più liberta. Tutti pensano solo ai soldi, anche i giovani. Hollywood produce solo blockbuster, e anche la Cina è così sciocca da seguire questo esempio. La Francia? Girare è difficile per le condizioni economiche. Il cinema italiano? È morto. Avevo avuto qualche speranza con Nanni Moretti. Quando ho visto La messa è finita ho pensato che fosse un genio. Ora invece mi ha deluso. E poi è comunista, e a me i comunisti non piacciono».Come non gli piacciono più i festival, anche se lo hanno premiato in tanti, da Venezia a Berlino, fino a Locarno che presto gli consegnerà il Pardo alla carriera: «Se fosse per me, li chiuderei tutti». Tranchant, burbero, ma amante della sincerità ha ancora una speranza: «La povertà. Perché solo i poveri fanno cinema vero».

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