martedì 27 novembre 2018
Il regista scomparso ieri ha avuto a lungo la fama di provocatore, ma a un certo punto è come se la realtà fosse andata oltre e lui, in un modo o nell’altro, avesse dovuto prenderne atto...
Bertolucci nel 2011 a Cannes (Ansa)

Bertolucci nel 2011 a Cannes (Ansa)

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Bernardo Bertolucci ha avuto a lungo la fama di provocatore, ma a un certo punto è come se la realtà fosse andata oltre e lui, in un modo o nell’altro, avesse dovuto prenderne atto. È anche per questo, forse, che tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta il regista, scomparso ieri a 77 anni, compie il suo tardivo pellegrinaggio in Oriente, attraverso la trilogia composta da L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto e Piccolo Buddha.

Nel pannello centrale, tratto dal romanzo di Paul Bowles, torna qualcosa della morbosità che aveva caratterizzato lo scandaloso Ultimo tango a Parigi, ma come depurata delle sue asprezze più intollerabili (comprese, sarà il caso di ricordare, le umiliazioni alla quale fu sottoposta sul set la protagonista Maria Schneider). Sia pure con i connotati del fiabesco e dell’esotico, nel Bertolucci “orientale” l’invisibile finisce per rivendicare un ruolo che non era neppure lontanamente immaginabile nei film degli esordi, tra cui spicca per compiutezza Il conformista del 1970, né in quel rutilante capo d’opera che è Novecento, affresco di straordinaria resa formale, ma nello stesso tempo angusto nella visione ideologica della storia come luogo della lotta, se non addirittura della vendetta, di classe.

Figlio di un grande poeta, Attilio Bertolucci, poeta a sua volta negli anni giovanili e discepolo di un irripetibile poeta-regista come Pier Paolo Pasolini, Bertolucci ha inizialmente prediletto le durezze di un’osservazione diretta della realtà, recuperando solo con il tempo uno sguardo più complesso e, ripetiamolo, meno ideologicamente connotato. Come se, dopo aver combattuto tutte le rivoluzioni (non esclusa quella sessuale), si fosse trovato a dover fare i conti con un mondo che assomigliava solo esternamente a quello che aveva immaginato. In Io ballo da sola, per esempio, il mito della promiscuità irresponsabile si infrange contro un desiderio di purezza che non ha più nulla di premeditato ed è solo istinto: istinto del bene, si direbbe.

Ma anche in un dramma d’interni come L’assedio si ha la sensazione che ci sia qualcosa che la cinepresa non riesce a inquadrare e che pure sarebbe indispensabile per completare il racconto. Senza scandalo, senza più bisogno di provocare. Per quello, ormai, il cinema non è più necessario.

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