mercoledì 4 ottobre 2023
La rinascita degli istituti museali nel dopoguerra passò attraverso gli allestimenti di grandi architetti come Scarpa e Albini. Oggi diversi riallestimenti sembrano ricercare solo il sensazionale
L'allestimento di Carlo Scarpa a Museo Gypsotheca Antonio Canova a Possagno

L'allestimento di Carlo Scarpa a Museo Gypsotheca Antonio Canova a Possagno - Laura Casarsa / Fondazione Canova Onlus

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C’è grande fermento nel mondo dei musei italiani. La selezione dei nuovi direttori – attesa per le prossime settimane – vede in gioco questioni cruciali, come le modalità di tutela, di ricerca e di valorizzazione dei beni culturali. È inevitabile un bilancio delle passate gestioni: accanto ad esperienze di indubbio spessore, che hanno incontrato il favore di pubblico e specialisti, alcune proposte sono apparse autoreferenziali, soprattutto orientate a generare ricadute mediatiche. Un approccio poco coerente, agli occhi di molti, con la missione di istituzioni che principalmente si intendono “al servizio della società” (ICOM, 2022).

In questa fase di passaggio è utile riflettere sul modo in cui la gestione del patrimonio sia cambiata nella storia recente, non solo in termini di equilibrio tra passato e presente, ma anche nel modo di interpretare il senso di responsabilità che il patrimonio richiede. Sul piano storico-culturale il tema del “museo d’autore” risulta quanto mai avvincente. All’indomani del secondo conflitto mondiale, l’emergenza di porre riparo ai danni provocati dai bombardamenti determinò uno straordinario sforzo di ripensamento degli spazi espositivi: non si trattava soltanto di rimettere in piedi grandi palazzi drammaticamente violati dagli ordigni, ma di riconfigurarne l’aspetto e la stessa funzione.

Come precisò Costantino Baroni, direttore dei Musei Civici milanesi, sarebbe stato irresponsabile investire denari per riesumare complessi museali antiquati, ormai privi di ogni rapporto con il tempo presente. Un Paese in ginocchio, come era l’Italia all’indomani della guerra, aveva bisogno di “musei viventi”, di luoghi vitali, capaci di parlare agli uomini e alle donne della modernità (si veda il bel libro di O. Lanzarini, The Living Museums, Nero, 2020). E fu sull’onda di questa potente spinta di riscatto e di impegno sociale, alimentata dall’entusiasmo di contribuire alla ricostruzione democratica dell’Italia, che tanti musei furono resi più accoglienti e comprensibili, posti in dialogo con il territorio, riformulati all’insegna di un rapporto autentico con il visitatore.

Di questa stagione straordinaria furono protagonisti grandi architetti come Carlo Scarpa, Franco Albini, lo studio BBPR, Franco Minissi. Nella ricostruzione di questi complessi interventi, la narrazione storica pone gli architetti come protagonisti assoluti. I direttori dei musei (tra cui spiccano le donne, come Wittgens e Marcenaro), al tempo funzionari storici dell’arte “promossi” al ruolo di coordinamento delle raccolte, agiscono il più delle volte in retrovia, ma sono sempre molto coinvolti nel grande progetto culturale che voleva avvicinare il patrimonio ai cittadini. Vi era una questione sociale, senza dubbio, legata al riconoscimento di professionisti-creatori – gli architetti – che nel primo ‘900 erano stati protagonisti del discorso sull’arte pubblica e la politica delle arti (si pensi a Le Corbusier e Gropius, ma anche ai talenti del razionalismo italiano, come Terragni e Moretti).

L’intervento dell’architetto era accolto come proposta tecnica, artistica e culturale: il suo coinvolgimento esplicito, parlante, costituiva una qualificazione cruciale, un valore aggiunto all’azione “ordinaria” dei funzionari che operavano nel museo, vigilando sulla tutela dei manufatti e degli edifici, sulla sicurezza dei visitatori, sulla selezione delle opere in mostra. L’esito di quella stagione fu folgorante: soluzioni mirabili furono apportate per valorizzare luoghi e oggetti d’arte, trasformando la visita al museo in un’autentica esperienza estetica, ma anche civica e sentimentale, sperimentando modalità di approccio del tutto inedite, come fa Albini in Palazzo Bianco con le sue “tripoline”, messe a disposizione del pubblico per accomodarsi agevolmente di fronte ai dipinti, o come fa Scarpa in Castelvecchio, dirigendo l’andamento del visitatore con effetti a sorpresa, trovate sceniche, improvvisi fasci di luce.

Da tempo si è aperto un complesso dibattito sulla conservazione di questi allestimenti: a lungo ritenuti inamovibili, sacralizzati, sono stati spesso adattati all’insorgere di esigenze pratiche o normative, a volte sostituiti con proposte incomprensibili, nei casi peggiori abbandonati a un lento degrado. La questione è di per sé un dibattito aperto; oltretutto non facile, perché se è vero che le soluzioni dei grandi museografi della generazione di Scarpa restano dei veri capolavori, va pur compreso che – come sosteneva Baroni nel ’45 – i musei sono spazi di vita e per mantenersi in contatto con la realtà devono potersi adattare e trasformare nel tempo. Al di là di questo, la diatriba sulla conservazione degli allestimenti storici stimola riflessioni ancor più cogenti, soprattutto di fronte alla determinazione di tanti direttori nel modificare – in modo spesso personalistico – l’organizzazione delle raccolte affidate loro, quasi presi dall’urgenza di lasciare il segno del proprio passaggio. Viene da chiedersi se l’avvento della “Nuova Museologia” non abbia trascurato la questione degli allestimenti, che oltre a essere spazi accessibili e accoglienti debbono saper valorizzare le opere che espongono.

Mentre si ragionava sul superamento del “museo tempio” in favore di un “museo Foro”, si inaugurava l’epoca delle archistar, degli architetti iconici che hanno piegato la funzione del museo (custodire una raccolta e valorizzarla) al desiderio di marcare il territorio: sono nati così i musei landmark, discendenti della genialità del Guggenheim di Wright (che si “avvita” nel cuore della Grande Mela, quasi fosse un macchina che attiva il tessuto urbano), ma che spesso ne condividono l’incongruenza funzionale, anteponendo l’involucro al contenuto e divenendo oggetto primario dell’attrazione del pubblico.

Si assiste ormai a uno iato tra la governance dei musei interpretata dai direttori-star e una concezione di servizio verso il pubblico e le opere esposte. Lo scontro sugli allestimenti storici si fa terreno di due diverse culture: per la generazione di Scarpa il progetto museografico era anche gesto politico, una sorta di ripristino del legame tra cittadini e patrimonio; nella concezione emergente sembra prevalere un approccio sensazionalistico, una ricerca spasmodica di un’originalità a tutti i costi, che finisce spesso col sacrificare le opere fino a confondere il pubblico. Il risultato da perseguire non è l’aumento contabile della bigliettazione, ma la qualità dell’esperienza che si offre: le competenze da mettere in campo riguardano la vera materia del patrimonio, la sua valorizzazione sensata e sostenibile. In tale prospettiva le università italiane offrono ai giovani laureati corsi di specializzazione che perseguono l’obiettivo di formare funzionari archeologi e storici dell’arte.

Da qui deriva anche la problematica sovrapposizione/ confusione tra un emergente concetto di curatela “creativa” (un tempo rivolta soprattutto alle mostre) e quello di gestione ordinaria delle collezioni, che consiste in un fondamentale lavoro di ricerca, conservazione e interpretazione delle opere custodite nell’interesse dello Stato e dei singoli cittadini. Un impegno che figure cardine della nostra storia museale hanno saputo interpretare con umiltà e dedizione. Ripensare il ruolo dei Direttori dei Musei (un processo che lo scenario attuale rende necessario e urgente), comporta la restituzione di un giusto equilibrio, in cui le opere, il pubblico e il bene comune dovrebbero rappresentare le coordinate assolute.

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