martedì 3 novembre 2015
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«Ha tutto quello che stavo cercando, fascino, innocenza e talento. Inoltre è molto divertente, assolutamente incantevole ». Così il regista William Wyler, che nel 1952 cercava la coprotagonista di Gregory Peck per Vacanze romane, restava a bocca aperta davanti al provino della giovanissima e sconosciuta  Audrey Hepburn, preferendola a Elizabeth Taylor. Gregory Peck pretese che nei titoli il suo nome fosse messo in risalto quanto il suo: «Sono abbastanza intelligente da capire che questa ragazza vincerà l’Oscar al suo primo film», cosa che puntualmente avvenne. E oggi, a più di sessant’anni da quel giorno, la principessa di Vacanze romane, come la squinternata e sensibile Holly di Colazione da Tiffany, esercita un’attrazione se possibile ancora più grande: la sua immagine, sofisticata eppure semplicissima, fa vendere ogni articolo, che siano borsette, foulard o magneti da frigo. C’è solo un uomo che afferma «non ho mai conosciuto Audrey Hepburn», ed è suo figlio Luca Dotti, autore di un volume appena uscito, Audrey mia madre (Mondadori, pagine 252, euro 24,90), nato nel 1970 dal matrimonio dell’attrice con lo psichiatra Andrea Dotti. Sua madre morì nel 1993, quando lei aveva ventitré anni. Eppure il suo libro inizia proprio così, «non ho mai conosciuto Audrey Hepburn». «Io conoscevo tutt’altra donna, la mamma semplice e appassionata della famiglia, della casa, della cucina. La diva con il tubino nero che fuma dal lungo bocchino era solo la maschera che indossava per lavoro, ma dalla quale era distante mille miglia. Sempre molto pratica, appena a casa si metteva jeans e maglioni larghi, e sebbene io da bambino giocassi con Mary Poppins [ Julie Andrews, ndr]  e mamma lavorasse “con James Bond”, ovvero Sean Connery, in realtà a casa si parlava di tutt’altro. L’Oscar stava mezzo nascosto tra i libri nella stanzetta giochi della casa di campagna. Mia madre diventò attrice per ripiego, perché il suo sogno di fare la ballerina classica si era infranto contro la tragedia della guerra mondiale, e per lei restò sempre il suo lavoro, come si può andare la mattina in banca o a insegnare: si applicava con professionalità e si alzava prestissimo per ripassare la parte, ma non si considerava né eccezionalmente bella né così brava... Il tutto però con grande leggerezza e grazia». Un Oscar subito e poi una serie di successi che la resero  indimenticabile. Eppure i film interpretati sono pochi. Perché decise praticamente di smettere a 38 anni? «Decise Sean per lei, venendo al mondo.  Quando nacque mio fratello, lei giudicò inconciliabile la vita di mamma e di attrice». Eppure molte attrici conciliano, direi tutte... «Sosteneva che un marito e dei figli quando tornano a casa “non desiderano trovare una donna nervosa. La nostra epoca è già abbastanza nervosa, no?”, sorrideva a chi la interrogava. Amava tanto la sua casa, che fosse quella degli anni romani o ancor più il nostro rifugio immerso nella natura in Svizzera, e cercava di far capire che lasciare il cinema non era affatto una rinuncia, anzi, che la vera rinuncia sarebbe stata crescerci da lontano. Il focolare era ciò che desiderava fin da piccola: “La casa sono i fiori che scegli, la musica che metti, il sorriso che hai sulle labbra mentre aspetti il ritorno dei tuoi cari. Voglio che la mia sia allegra e vivace, un porto sicuro in questo mondo travagliato”». Sembra proprio di vedere la Holly di Colazione da Tiffany, la stessa gaiezza mista a un’ansia di protezione e a una sete di amore. Non sarà stata una diva, ma c’è molto in comune tra questa donna e i suoi personaggi... «È vero, tant’è che per me era impressionante da bambino guardare i suoi film, perché era assolutamente lei. Intendo non la figura vestita Givenchy dai grandi cappelli, ma quella sua ingenuità e la leggerezza in tutto ciò che affrontava. La guerra l’aveva talmente segnata che, sopravvissuta a quel dolore, ridimensionava ogni altra cosa. I suoi fratelli erano stati deportati, lo zio fucilato, il padre, britannico, e la madre, olandese, si erano separati e lei era cresciuta in un collegio inglese, poi per timore che Hitler invadesse l’Inghilterra fu mandata in Olanda... Con suo padre perse i contatti quando aveva nove anni e lo rintracciò da adulta grazie alla Croce Rossa: nonno conservava i ritagli di giornale su quella figlia ormai famosa, ma proprio per questo non osava cercarla, tra rimorsi e paura di apparire opportunista. Per questo mia madre tutta la vita inseguirà l’amore, la famiglia e in generale l’essenziale e il vero, mai l’apparenza. Più maturava negli anni e più sfrondava ciò che nella vita non conta, per concentrarsi su quanto la rendeva davvero felice. In particolare fin dagli anni ’70 si prestava in prima persona con l’Onu in Africa perché ricordava bene fame e guerra, ma dal 1988 fino alla morte fu ambasciatrice Unicef con la stessa professionalità di quando recitava. Si alzava presto e leggeva interamente i rapporti dei medici, combatteva con forza contro le ingiustizie... ». Che posto occupava la fede nella sua vita? «Torniamo al discorso sull’essenziale: lei era cristiana protestante, era molto lontana da ogni “politica” ecclesiastica ma credeva fermamente nei concetti universali della Chiesa, in primis la carità, il fatto che noi siamo il nostro prossimo e che non esiste un terzo mondo, perché tutti facciamo parte di un’unica coscienza. Mi insegnava che abbiamo due mani, una per ricevere e una per dare, e ha insistito perché io ricevessi un’educazione cattolica come papà. La sua fede in definitiva era fatta di opere, di amore autentico per gli altri. Scrivendo questo libro e intervistando chi l’aveva incontrata, mi ha colpito che tutti, dall’attore di Hollywood al fruttivendolo di Roma o al taxista, mi raccontavano di quanto era alla mano, gentile, umana, mai della diva». Il libro procede attraverso le ricette appuntate a mano da sua madre. E i proventi vanno alla fondazione che porta il suo nome. «Era il modo più intimo per raccontare la vera Audrey. Lei sfruttava la sua icona per farne un veicolo di solidarietà, capì che il mondo dello spettacolo aveva un grande potere ma anche una immensa responsabilità, così si offriva al pubblico raccontando la sua vita e mostrando la sua faccia, ma in mezzo ci metteva i bambini denutriti e in questo modo raccoglieva aiuti. Ricordo che nel 1981 era rimasta impressionata dal coinvolgimento della gente per Alfredino Rampi, il bimbo morto nel pozzo artesiano a Vermicino, tutti si davano da fare per salvarlo. “Se riesco con l’Unicef a ottenere lo stesso risultato, quanti ne posso salvare io?”, mi disse. Oggi andiamo avanti io e Sean, il suo volto continua ad aiutare l’infanzia». Un’immagine inossidabile. Qual è il suo segreto? «L’immagine cult, quella da magnete sul frigorifero, è scoppiata dopo la sua morte in modo inspiegabile, è una delle magie di mia mamma, che però fa capire l’affetto della gente. In Cina mi hanno spiegato che è l’unica attrice che mette d’accordo tutte le generazioni, piace indifferentemente a tutti. Pensare che lei si descriveva troppo magra, troppo alta, col naso lungo... All’inizio la costumista della Paramount dovette correggere gli abiti diVacanze romane sul suo fisico, poi le cose si invertirono e fu lei a dettare un nuovo stile, tuttora intramontabile». Audrey come Holly, stessa finta ingenuità, stessa ironia... Ci racconta un episodio? «Già famosissima, un giorno si recò proprio da Tiffany per ritirare un anello che aveva portato ad aggiustare. Ma siccome non aveva con sé un documento, la commessa le chiese che cosa potesse mostrarle come garanzia e mia madre, soave, sbattendo le ciglia: “La mia faccia”».
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