mercoledì 13 luglio 2022
Dall’antichità a Cartesio, Pascal e Hegel, la scommessa è evitare i conflitti: l’avversario non va umiliato e spinto alla disperazione. Alcune lezioni del pensatore francese
Jean Guitton

Jean Guitton - Epa/Ansa

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«L’arte della guerra è di evitare la guerra», diceva Jean Guitton. E poco prima spiegava: «L’arte di fare la guerra è una tecnica che, malgrado il male della morte di cui si serve, mira ad un bene: a preservare una nazione da quel disastro radicale che sarebbe la perdita della sua indipendenza». Se in passato, come ad esempio nell’antichità, essere sconfitti significava la schiavitù di tutto un popolo, non è che le cose siano molto cambiate in epoca moderna e contemporanea: basti pensare alle nazioni sottomesse dal nazismo durante la Seconda guerra mondiale. «Una sconfitta – scriveva ancora il grande intellettuale cattolico francese – significa un’amputazione delle risorse di un paese, una diminuzione della libertà e, ai nostri giorni, un annichilamento. Ecco perché le nazioni hanno tanto onorato i vincitori delle guerre». Queste frasi emblematiche e volendo applicabili all’attuale conflitto in Ucraina sono tratte dal volume Il pensiero e la guerra, uscito in Francia nel 1969 e ora tradotto in italiano da Morcelliana (pagine 222, euro 18,00). Inutile cercare in queste pagine una perorazione sconfinata e ripetuta della causa della pace o una discussione sul senso della guerra giusta: per il filosofo allievo di Bergson e amico personale di Paolo VI, oltre che uno dei pochissimi laici a prendere la parola al Concilio, occorre avere il coraggio di “pensare la guerra”. La guerra infatti, come annota Andrea Aguti nella prefazione, è sempre stata oggetto di pensiero soprattutto da parte di chi la fa, «l’intelligence militare, i generali, gli strateghi», e raramente da parte dei filosofi. «Per questo – rileva Aguti – bollare la guerra, ogni guerra e ogni tipo di guerra, come una follia e ritrarsi inorriditi davanti ad essa denota, ad un tempo, mancanza di intelligenza e debolezza». Cartesio e Pascal hanno qualcosa da dirci in questo senso, ma anche condottieri come Napoleone e naturalmente polemologi come von Clausewitz. Ma è Hegel soprattutto a fornire indicazioni preziose anche per il pensiero contemporaneo, con la sua teoria della dialettica applicata ai conflitti. In un corso tenuto in due occasioni, negli anni Cinquanta, all’École de guerre francese, Guitton cerca di penetrare all’interno della logica di chi fa la guerra, parla di tattica e di strategia, è cosciente del fatto che spesso le vittorie più clamorose nascono da una precedente disfatta e nota come nella storia del pensiero «una filosofia politica è venuta fuori da una riflessione sui turbamenti dello Stato opposto, e vicino ». Accadde così con Platone, che pur essendo ateniese guardava alla potenza di Sparta, e con Aristotele influenzato dalla Macedonia di Alessandro. Allo stesso modo, «lo stoicismo è una riflessione fatta da spiriti greci sull’impero romano, Hobbes rifletteva su Luigi XIV, come Montesquieu sull’Inghilterra parlamentare e Kant sul 1789». Infine Hegel appunto, affascinato da Napoleone in cui vedeva in incarnato lo spirito del tempo. Dopo averlo incontrato a Jena nel 1806, il filosofo tedesco scrisse: «È una cosa meravigliosa il vedere personificata l’anima del mondo; il vedere un tale individuo che, qui concentrato su un punto, assiso su un cavallo, stende la sua mano sul mondo e lo domina». Guitton qui ha buon gioco a rilevare la posizione contraddittoria di tanti pensatori con la loro sottomissione al potere, atteggiamento che si è ripetuto nel corso della storia. Il volume raccoglie varie conferenze di Guitton, la prima delle quali scritta nel maggio 1940 e dedicata alla figura di Hitler: «Come la maggior parte dei francesi, avevo creduto che non fosse soltanto un dovere di pensare a Hitler, ma di pensare Hitler ». Un uomo di formazione «povera e miserabile», una «natura non intellettuale ma volitiva », ma anche un oratore formidabile, capace di avvincere le masse col potere della parola e abile a sfruttare invenzioni tecniche come l’altoparlante e la radio. Pochi mesi prima della disfatta dell’esercito francese, Guitton intuì la capacità del Führer di demoralizzare l’avversario con una guerra di nervi e poi di comprare facilmente uomini del fronte avverso che avrebbero formato un governo di sua convenienza. Ma sempre sulla scia di Hegel, che Guitton ambisce «scorticare», il suo impianto dialettico può servire a capire come sia necessario entrare nella mente dell’avversario e «capire le sue ragioni». Solo così si potrà pervenire a «quell’ordine superiore che si chiama la pace». Per questo obiettivo, come diceva Foch citando Federico II, bisogna saper perdere a volte una provincia, perché chi vuol difendere tutto non salva nulla. L’intellettuale francese che dialogò con i massimi pensatori e politici non credenti del ’900, da Althusser a Mitterrand, ribadisce anche come sia sbagliato riflettere sulla guerra mettendo da parte i fini ultimi, dato che è evidente come le guerre nascono non solo da cause politiche ed economiche, ma «derivano in ultima analisi da quello che i belligeranti pensano sul significato ultimo dell’uomo, della vita, della morte, del dopo morte, di Dio». Anche in questo caso il collegamento con l’invasione russa viene facile, pensando alla sacralità del conflitto ribadita più volte da Putin e Kirill. Ma il capitolo del volume più impressionante per la sua attualità è l’ultimo, quello dedicato alla dissuasione , in cui si affronta il tema dell’avvenire dell’umanità. Se Camus intravide nel suicidio il problema filosofico più grave che si possa presentare all’uomo, ora si è passati dal piano individuale a quello collettivo, dato che per la prima volta nella storia durante la Guerra fredda la specie umana è divenuta capace di un suicidio reciproco. Guitton elabora una vera e propria filosofia della dissuasione e indaga con coraggio le nuove forme della guerra, che ha un doppio carattere, atomico e cibernetico, cui si potrebbe aggiungere un dettaglio non trascurabile e che desta orrore, quello batteriologico. Dinanzi alla prospettiva della fine del mondo, si tratta dunque «non tanto di fare la guerra ma di dissuadere l’avversario dal farci la guerra». La scommessa, per tornare a Pascal, allora «diventa la sostanza della guerra». Per questo, «ora più che mai, non bisognerà spingere l’avversario alla disperazione di un’umiliazione evidente. Se egli si crede offeso, nella sua vita o nel suo onore nazionale, allora rischia di applicarsi la logica del Tutto o Nulla». In questo caso, lo scenario sarebbe un vero incubo, l’estinzione della specie umana o l’instaurazione dell’impero totale. Una sorta di dittatura universale, già prefigurata da Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore, cui Guitton si riferisce esplicitamente, e ugualmente immaginata da Benson nel romanzo Il padrone del mondo e da Solov’ev nel Racconto dell’Anticristo.

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