mercoledì 5 aprile 2017
È uno dei miti dell’ebraismo, quello del gigante d’argilla creato, secondo la leggenda, dal Rabbino di Praga nel XVI secolo per proteggere la sua comunità ...
Il bozzetto di Niki de Saint-Phalle per la scultura “Le Golem” (1971)

Il bozzetto di Niki de Saint-Phalle per la scultura “Le Golem” (1971)

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Se già nel 1980 non stupiva che uno dei “mostri” della Marvel Comics, l’incredibile Hulk potesse avere a che fare col Golem – il suo stesso aspetto di essere nato dalla metamorfosi di uno scienziato coinvolto in un incidente nucleare lo rendeva simile al gigante creato, secondo la leggenda, dal rabbino di Praga nel XVI secolo –, più difficile è capire come sia venuto in mente a un corrispondente del “New York Times”, un certo Georges Vecsey, di paragonare sul proprio blog nel 2015 Donald Trump al Golem. La stazza dell’uomo, d’accordo, è notevole, il volto squadrato e scolpito con l’accetta, con quel ciuffo giallognolo che gli attraversa la fronte, può evocare la categoria estetica delle cose strane, ma da qui a connotare il futuro presidente americano con la mostruosità del Golem ce ne vuole. È vero però, che il Golem nella campagna elettorale americana deve aver ben funzionato, se gli ultranazionalisti, sostenitori di Trump, hanno rispolverato l’ascia antisemita accusando gli ebrei di essere “golem senz’anima”, facendo così del Golem – scrive Ada Ackerman nelle note introduttive alla mostra che il Museo di arte e storia dell’ebraismo di Parigi dedica a questo mito –, «il simbolo di una presunta mostruosità ebrea».

Questa esposizione assai curiosa, poco archeologica e molto proiettata sulle metamorfosi del Golem nella cultura contemporanea, è chiara fin dal sottotitolo: «Gli avatar di una leggenda d’argilla». Perché, appunto, questi esseri celesti o angelici dall’aspetto un po’ umano e un po’ mostruoso, funzionano qui come maschere di un mito diventato celebre nella Praga del XVI secolo, ma in realtà nella sua forma etimologica già evocato nella Bibbia e presente come riflesso tanto nel talmud quanto nella cabbala, e che nel vocabolo ebraico è di volta in volta venuto a indicare una massa informe, un embrione, una larva, un simulacro dalla forma umana, e nel mondo moderno un robot. Uno che di robot se ne intendeva, perché lo aveva introdotto in letteratura nel 1920, lo scrittore praghese Karel Capek, scrisse una volta che «Niente è più strano per l’uomo della sua immagine».

E il Golem è una forma di simulacro attivo, un homunculus – altro parto della fantasia alchemica, in questo caso di Paracelso –, che la leggenda vuole essere nato dalla volontà del rabbino praghese Judah Loew, il quale avrebbe fabbricato con l’argilla questo simulacro umano che il soffio vitale della parola ebraica avrebbe reso vivo e potente, come baluardo della comunità ebrea di Praga dell’epoca. In realtà, non pare che al tempo del Maharal di Praga la comunità ebraica fosse particolarmente minacciata. Se si vuole avere qualche certezza in materia bisogna rivolgersi agli studi di André Neher, il quale oltre a scrivere sul Maharal di Praga, il rabbino Loew appunto, ne trattò anche in uno dei suoi capolavori saggistici, Faust e il Golem, dove intrecciando Thomas Mann e Norbert Wiener, il teorico della cibernetica, cerca di mostrare come «il mito del Golem entra nel cuore della nostra postmodernità: la cibernetica, il radar, il calcolatore, l’automazione, la scissione dell’atomo, alla quale Wiener aveva collaborato, sono forze ambigue dell’uomo-robot i cui gesti meccanici lanciano il mondo simultaneamente verso l’accelerazione irreversibile del progresso e verso i carnai di Auschwitz e i crateri di Hiroshima».

Neher scriveva nel 1987. Wiener invece introdusse la parola golem nel suo saggio sulla cibernetica già del 1948, ma – come notava lo stesso Neher – nel suo ultimo saggio, del 1964, Wiener lo porta anche nel titolo: Dio & Golem S.p.a. Il Doktor Faustus di Thomas Mann era uscito nel 1947. Neher pone di fronte i due miti «giovani e gemelli», perché in effetti coi postumi ancora vivi della Seconda guerra mondiale, si manifesta nelle opere di Mann e Wiener una parusia, ovvero «i due miti risorgono contemporaneamente temprati in un acciaio mentale più forte e più significante di quello di Goethe». Del resto, tanto il Doktor Faustus che Rabbi Loew vissero quasi contemporaneamente, e le loro leggende si legano ad aspetti in qualche modo complementari: il patto col Diavolo e la creazione del Golem. E Neher mette in guardia dalla tentazione a ridurre tutto alla questione della magia (tra l’altro, il rabbino Loew, da quel che dicono le fonti, non credeva né alla magia né ai miracoli), perché il risorgere oggi di questi due miti pone piuttosto una questione metafisica. La questione del bene e del male. E la reciprocità che riscopre nel tempo postbellico – ma anche oggi, dove guerre e faustismo economico si sposano con esiti davvero diabolici –, sta appunto nel fatto che a Faust Thomas Mann associa satana, mentre al Golem Wiener associa Dio. Così Wiener, ebreo, ritorna alla tradizione del Maharal di Praga. Neher è il mentore, dunque, di questa mostra parigina che del Golem fa una sorta di catalizzatore dell’immaginario legato alla fabbricazione del simulacro dotato di poteri straordinari per difendere l’uomo da nemici che una società sempre più faustiana produce in dosi massicce e devastanti.

L’emblema di questa condizione in bilico sul confine – anche la creazione del Golem è un rischio, quello che sfugga di mano al suo creatore – è il dipinto di Miloslav Dvorák, Il Golem e il rabbino Loew vicino a Praga del 1951, dove il gigante d’argilla ha l’aspetto di un essere creato per eseguire un comando senza discutere (è privo di bocca e di naso). Il rabbino Loew lo ha appena creato, alla caviglia il Golem ha un grosso anello, un ceppo da carcerato, a cui potrà essere attaccata la catena: è il segno che si tratta di un essere da tenere sotto controllo, ma anche l’indizio che spinge a pensare a quanto pericoloso possa essere lasciarlo libero di agire. Il che sta almeno a significare due cose: il Golem è programmato per difendere gli ebrei, ma esegue la volontà di un altro, e come tale non ha una morale; però nelle sue regole d’ingaggio, come si dice oggi, è sottintesa anche la possibilità che faccia di testa sua: ha dunque una testa, e come tale può aspirare a una libertà? In un certo senso, il Golem che vediamo rappresentato in questa mostra va oltre la leggenda ebraica, è sempre sul punto di liberarsi e prendere il comando. Come scrive la Ackerman in catalogo, non sorprende che questo essere torni di attualità nei periodi di crisi, perché in esso si cela un doppio volto: quello della speranza (come salvatore o messia) e quello della mostruosità. Potrebbe, per esempio, avere un volto futuribile, quello di Maria, il robot-donna del film Metropolis di Fritz Lang, che è del 1926.

La cultura femminista ha sottolineato anche le analogie fra il Golem e la condizione più tradizionale della donna nel mondo ebraico: come lei, è privo di parola, non è considerato alla pari dell’uomo nelle prerogative umane, svolge compiti ed è relegato nello spazio domestico, è escluso da certi riti religiosi, lo si attiva o disattiva secondo necessità... ma finisce per rivoltarsi, conclude Ada Ackerman. In mostra viene mostrato anche il film Golem, l’esprit de l’exil di Amos Gitaï (1991), dove l’attrice tedesca Hanna Schygulla interpreta il ruolo di Donna-Golem, col compito di proteggere gli esiliati, gli emarginati, i migranti del mondo. Gli artisti giocano col Golem provando l’ebbrezza di chi maneggia materia esplosiva. E Philip Guston sovrappone creatore e creatura sostenendo che «un Golem è come un dottor Frankenstein». A chi ha pensato questa mostra è chiaro che oggi il Golem non si trova sempre là dove ce lo si aspetterebbe. Che il mito furoreggi fra i comics ci sta: persino Superman nel 2008 si misurò con la creatura di uno scienziato pazzo alla ricerca dei superpoteri, Lex Luthor, creatore di un Golem “galattico” che prendeva energia da un meteorite e seminava terrore. Come nota Dorothée Morel fu uno spettacolare duello tra due Golem, «uno al servizio del bene e l’altro del male».

Il Golem è potente, devastante, furioso e fragile al tempo stesso, come l’argilla. Nasce da una massa amorfa di creta, poi le mani dell’uomo – come nel video Materia prima di Jakob Gautel (1999) – gli imprimono la forma. E quando ha raggiunto la sembianza umana, può tornare a essere quella palla di terra che era all’inizio. Ciclicità della forma, ma anche di un rito che può rovesciare l’uomo dal suo trono terrestre. Il Golem, in definitiva, è un mito della libertà, dei rischi della libertà, un mito certamente ebraico e biblico, perché come sappiamo l’uomo fu il Golem di Dio. E dalla libertà dell’uomo sono derivati anche “progressi” che oggi rischiano di espropriarlo della sua immagine.

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