martedì 15 gennaio 2019
Una mostra voluta dai quattro figli nei locali della chiesa di San Salvatore in Lauro a Roma svela gli aspetti inconsueti e la vastità degli interessi del politico nato cent’anni fa
Giulio Andreotti con il fez durante una visita in Egitto nel 1951

Giulio Andreotti con il fez durante una visita in Egitto nel 1951

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La prima foto lo ritrae nel seggiolone, al mondo da pochi giorni. Ne aveva quattro, Giulio Andreotti, quando don Luigi Sturzo rivolse il suo appello ai 'liberi e forti' e si può immaginare che un qualche segno di adesione alzando la manina dovette farlo, a giudicare dalla vita che ne è venuta poi. L’uomo che amava ringraziare, spesso, per il privilegio avuto di essere commemorato in vita, che ha fatto la fortuna di vignettisti e imitatori di tre generazioni si prende la sua rivincita, con le sue immagini vere, eppure così diverse da quelle che ricordiamo dei rigidi canoni dell’ufficialità. Una mostra voluta dai quattro figli, Marilena, Lamberto, Serena e Stefano, mette in vetrina i 'gioielli' di famiglia, foto senza nemmeno bisogno di didascalie o chissà quali pannelli esplicativi. Parlano le immagini.

Avrebbe compiuto cento anni, ieri, il Divo Giulio, e si può facilmente indovinare che aspirasse al traguardo. Ma le sue soddisfazioni se le è prese lo stesso. La foto che lo ritrae all’ospedale militare del Celio in ruolo non operativo, a seguito di un insuccesso giovanile che ricordava spesso (la domanda non accolta per allievo ufficiale, per insufficienza toracica) è parente stretta di una rivincita altrettanto celebre che si prese poi: quando nel 1959 divenne ministro della Difesa gli venne il puntiglio di cercare quell’ufficiale medico che, a corredo del responso negativo, gli aveva pronosticato una vita non lunga, con quel fisico lì. Ma – purtroppo – era il medico a non avercela fatta: non lo trovò. Perché i manuali medici non tenevano conto ancora di una massima che sarebbe diventata famosa («Il potere logora chi non ce l’ha»), che fa il paio con un’altra più recente, del 1991, quando il suo governo annaspava, gli cadde addosso l’accusa di voler tirare a campare, e lui replicò con la sua ironia bruciante: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia...». Battuta non delle migliori, conviene Serena Andreotti, ma a volte non è facile vincere l’assedio dei giornalisti, quando già gli eventi girano male. In fondo si trattava di suoi colleghi, e non per modo di dire.

Le centinaia di ministri che gli si sono alternati al fianco lo ricordano sempre con l’immancabile block-notes, e i diritti d’autore gli hanno regalato una ragguardevole autonomia finanziaria da tenerlo al riparo da tutte le inchieste (almeno quelle) per finanziamento illecito ai partiti. Esposti in mostra 59 libri (i diari, e tutta la serie dei Visti da vicino) e chissà se sono davvero tutti. Non c’è al mondo esponente politico che sia stato più tollerante, quasi noncurante, verso critiche e satira, anche se l’ultimo film di Sorrentino gli procurò non poco dispiacere in una vita che di dispiaceri gliene aveva già procurati tanti. La foto del funerale di Moro, e quelle degli avvocati Coppi e Bongiorno, a ricordare i due più intensi: «Soffrì molto l’accusa di non aver fatto abbastanza per salvargli la vita», dice la figlia Serena, della tragica morte dello statista dc, assassinato dalle Br. «Ma delle accuse di aver favorito la mafia risentì anche la sua salute. Gli trovarono due masse tumorali, in quel periodo. Non riusciva più a dormire neanche le quattro ore che dormiva la notte, e dovette far ricorso ai sonniferi».

Ma l’uomo cinico, freddo per antonomasia nelle immagini esposte nei locali della chiesa di San Salvatore in Lauro si scioglie come neve al sole per lasciare posto a quello che, insieme a Cossiga segue con il binocolo una corsa alle Capannelle, e si avvicina anche al botteghino, come un anonimo scommettitore. O il tifo per la Roma, come documenta una foto con il brasiliano Falcão, in compagnia del presidente Sensi e, più recente, quella in cui il presidente del Roma club Montecitorio Paolo Cento che gli regala la magia giallororssa personalizzata con il cognome scritto sopra. Le foto dei grandi e meno grandi ai quali si è accompagnato, poi, con Alcide De Gasperi al ventennale dei Patti lateranensi; con il fido Franco Evangelisti («A Fra’ che te serve?», la celebre frase che gli sopravvive), all’inaugurazione di Fiumicino con il presidente Gronchi, Fanfani e Zaccagnini. E le foto con Craxi e Berlusconi, con i quali ebbe rapporti altalenanti. Immancabili le foto dei giuramenti, non tutte, naturalmente essendo stato 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro. Si può solo presupporre che quel foglio in mano per leggere la formula di rito la tenesse solo per far scena, a un certo punto, avendola ampiamente mandata a memoria. Ma Andreotti è stato anche giovane. Non si direbbe, ma quella foto con i capelli che volano al vento, sul ponte, all’inaugurazione della nave Andrea Doria, lo testimonia. «Sembra Dustin Hoffman, Non trova?».

Due mostre e un libro

Nel centenario della nascita di Giulio Andreotti, avvenuta a Roma il 14 gennaio 1919, due mostre fotografiche ne ripercorrono la vita pubblica e privata. Si inaugura stasera 'Immagini di una vita' presso il Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro (Pio Sodalizio dei Piceni) e presentato il volume Giulio Andreotti. Immagini di una vita, edito da Skira, con l’arcivescovo Rino Fisichella, Gianni Letta, e i figli Stefano e Serena Andreotti. La mostra sarà aperta fino al 17 febbraio. L’altra, 'Una vita per lo Stato', ospitata al Senato, Biblioteca Giovanni Spadolini, è stata inaugurata ieri e sarà aperta al pubblico fino al 10 febbraio. Entrambe si avvalgono della collaborazione dell’Istituto Sturzo al quale il senatore a vita donò il suo enorme archivio.



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