domenica 7 marzo 2010
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È sorprendente come, talvolta, piccoli dettagli, a prima vista insignificanti, possano celare dietro di loro interi universi culturali e addirittura cambiamenti epocali. Ce ne renderemo conto paragonando la mano del Crocifisso di Cimabue di San Domenico ad Arezzo o quello di Santa Croce a Firenze, con lo stesso particolare della Croce dipinta da Giotto per Santa Maria Novella. Il lasso di tempo che separa le tre opere è di pochi anni: quelle di Cimabue sono databili rispettivamente al 1268-1271 e fra il 1287 e il 1288, mentre il dipinto di Giotto fu realizzato nel decennio che va dal 1290 al 1300; dunque una differenza che oscilla da un minimo di due ad un massimo di 32 anni, secondo le datazioni e i capolavori che prendiamo in considerazione. Un periodo piuttosto breve, rispetto alle grandi differenze di mentalità e di sensibilità che si celano dietro le scelte stilistiche riflesse nelle mani del Cristo dipinte dai due artisti. Quella di Cimabue (qualunque se ne scelga) è quasi un fiore aperto sul fondo scuro della croce. Il maestro si preoccupa di dipingerla distesa, come se si dovesse far vedere per forza il chiodo che la sta martoriando. Anche il sangue scende verso il basso con un rivolo «educato», senza sbavature. La mano del Crocifisso di Giotto, invece, è collocata nello spazio, in prospettiva. Le dita flesse verso il palmo e il pollice che vi si oppone, creano un volume sconosciuto all’immagine piatta di Cimabue. Anche il rigagnolo di sangue non è più così convenzionale: scorre ancora e imbratta tutto. Le sue diverse scolature danno conto dei movimenti del Cristo nella sua agonia. Il primo dipinto è figlio della tradizione di Bisanzio, ancora legato a soluzioni stereotipate come quelle di Coppo di Marcovaldo, Giunta Pisano, Margaritone d’Arezzo; il secondo, invece, è preso dalla realtà, forse basato sullo studio dei cadaveri, certo su quello della figura vera, di carne e di sangue. Questo è il significato della frase che Cennino Cennini scrisse nel suo Libro dell’arte o Trattato della pittura: «Volse la pittura di greco in latino». Non si tratta, però, di sterili innovazioni stilistiche o di trovate geniali: dietro queste scelte c’è il pensiero di san Francesco. Non è qui possibile fare la storia del Crocifisso (né è questo il tema), ma l’opinione degli studiosi (ricorderemo solo Michele Dolz e il suo delizioso libretto sulla Crocifissione) è quella che vede, nella progressiva umanizzazione del Crocifisso (raffigurato come «trionfante», ossia con gli occhi aperti e il capo dritto, fino al XIII secolo), l’influsso della religiosità francescana. Del resto, l’interesse di Giotto per l’uomo e la natura aveva rispondenza nell’amore di Francesco d’Assisi per la persona e il creato. Probabilmente anche le umili origini di Giotto (forse diminutivo di Ambrogio o di Biagiotto), figlio di Bondone «lavoratore di terra e naturale persona», come scriveva Vasari, contribuirono a questa consonanza. Certo è che il pittore del Mugello finì per divenire l’araldo del cristianesimo illuminato dal sole di Francesco. Ad Assisi, racconta sempre Vasari, nella seconda edizione delle sue Vite, l’artista giunse «…essendovi chiamato da fra’ Gioanni di Muro della Marca allora Generale de’ Frati di San Francesco, dove nella chiesa di sopra dipinse a fresco, sotto il corridore che attraversa le finestre, dai due lati della chiesa, trentadue storie della vita e fatti di San Francesco, cioè sedici per facciata, tanto perfettamente che ne acquistò grandissima fama». Gli storici dell’arte ancora si dibattono sulla correttezza dell’attribuzione del Vasari, che non trova altri riscontri documentali. Il fatto è che la chiesa superiore di Assisi, ultimata nel 1252 da frate Elia, era divenuta il cantiere più importante d’Italia, dove era giunto Cimabue fra il 1280 e il ’90 e poi altri pittori di cui come Torriti, Rusuti e Cavallini. Giotto fu una delle voci del coro, ma poi divenne l’albero che copre la foresta anche perché, probabilmente, più degli altri, aveva compreso il messaggio di Francesco. Si guardi, per esempio, alla Predica agli uccelli, un affresco concordemente attribuito. Il santo non sta al centro della scena, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma a sinistra. I protagonisti sono gli uccelli che volano o saltellano verso il Poverello d’Assisi, il cielo che sta sullo sfondo e il grande albero sulla destra che pare instaurare un muto dialogo con Francesco considerato – anche visivamente – una delle «creature» che lodano Dio, così come sta scritto nel celebre Cantico. La scena riprende quasi alla lettera il testo della Legenda major scritta da san Bonaventura da Bagnoregio, ma omettendo il riferimento geografico al viaggio verso Bevagna, ne fa un’immagine universale dell’amore verso il mondo che, per potenza e intensità, ha corrispettivo solo nei versi dello stesso Francesco che recita: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, / la quale ne sustenta et governa, / et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba». Si pone allora qui un’altra questione, ovvero quella del rispetto del pensiero religioso originario di Francesco. Dopo la morte del santo, infatti, l’ordine monastico da lui fondato fu sottoposto a un processo di revisione. Chiara Frugoni ha ben spiegato questo percorso dettato dall’impossibilità di imitare alla lettera il Santo. I motivi erano, da una parte, nel bisogno di addolcire aspetti che avrebbero impedito la sua stessa sopravvivenza dell’Ordine, come la condizione di povertà assoluta; dall’altra nell’episodio delle stimmate, rivisto da san Bonaventura rispetto al resoconto di Tommaso da Celano e tradotto in figura proprio da Giotto. San Francesco diveniva un modello irraggiungibile e l’azione dei suoi seguaci servì ad evitare sterili emulazioni. Scrive la Frugoni: «…frati e devoti poterono continuare a venerarlo ma non dovettero più prenderlo a inquietante modello di vita esemplare, volgendosi piuttosto ad altri santi innovatori che intanto l’Ordine aveva acquisito fra le sue file». Questo, però, non vuol dire che Giotto non avesse compreso il significato profondo del pensiero di Francesco, ma neppure che Giotto fosse un asceta di Cristo. Delle sue origini contadine, infatti, l’artista non mantenne solo la capacità di apprezzare le cose semplici, ma pure «l’occhio aguzzo» per il commercio, come dice Dante dei contadini. Giotto era un ottimo imprenditore di se stesso, ma «scarpe grosse e cervello fino» non significa sordità alla spiritualità di Francesco, adesso interpretata con strumenti stilistici innovativi, gli unici in grado di tradurre in immagine il nuovo senso religioso che proveniva e proviene dal francescanesimo.
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