sabato 8 febbraio 2025
Un nuovo saggio di Francesco Medici su un capitolo di storia dimenticata che ebbe protagonista lo scrittore tra il 1915 e il 1916. Un appello inedito
Khalil Gibran (1883-1931)

Khalil Gibran (1883-1931) - WikiCommons

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A Beirut, sulle alture libanesi e dintorni non si trovava più cibo. Era l’inizio del 1915, centodieci anni fa. Uomini, donne e bambini, ridotti a pelle e ossa provavano a sopravvivere spolpando carcasse di animali, o, sfiniti, morivano per strada. Si propagavano malattie: peste, tifo, malaria. E i funzionari ottomani perpetravano continui soprusi – ma pure torture, deportazioni, esecuzioni – sulla popolazione locale. Questo accadeva nella prima guerra mondiale, quando temendo un’insurrezione da parte dei sudditi arabi, specie cristiani, il generale turco Cemal Pascià impose un blocco per impedire al mutasarrifato del Monte Libano di importare cibo, affamandoli e dando così origine ad una catastrofe che, aggravata dalla devastazione dei raccolti per le invasioni di cavallette, in due anni uccise non meno di 200mila persone. È il capitolo di storia del Vicino Oriente noto come “la Grande Carestia del Monte Libano”. Pagine tristissime talora richiamate insieme alla mobilitazione di soccorso che oltreoceano venne organizzata dai siro-libanesi emigrati in America, appena appreso cosa stava accadendo nella loro patria. A guidarla – e questo era l’aspetto ancora sconosciuto nei dettagli più rilevanti – un poeta e pittore allora trentaduenne, nato a Bsharre, in Libano, nel 1883 in una famiglia cristiano- maronita, ma trasferitosi negli Usa per la prima volta a soli undici anni, diventato poi celeberrimo: Kahlil Gibran. Al suo impegno a favore dei conterranei, grazie a nuovi documenti inediti dedica a un saggio – ora pubblicato dal bimestrale “Dialoghi Mediterranei” – Francesco Medici, fra i maggiori esperti e traduttori dell’opera gibraniana, nonché autore di saggi su altri letterati siro-libanesi della diaspora, in particolare Ameen Rihani. «Sono in partenza tra un’ora circa per rientrare a New York […]. Quella povera gente sta soffrendo immensamente e noi che siamo qui stiamo cercando di fare del nostro meglio per aiutarla», scrive Gibran da una località vicino a Boston il 10 settembre 1915 all’amica Mary Haskell. Ricorda Medici che, nei mesi successivi, il numero delle vittime della carestia crebbe vertiginosamente, ma ciò non fece che aumentare gli interventi di Gibran, che cominciò a inviare dapprima denaro di tasca propria, poi i proventi dei libri appena pubblicati, convincendosi che il destino già riservato agli Armeni avrebbe colpito anche la sua gente. Il 26 maggio 1916 scrisse infatti alla Haskell: «La mia gente, la gente che abita il Monte Libano, è stremata dalla fame a causa di un piano ordito dal governo turco. 80.000 sono già morti e a migliaia muoiono ogni giorno. Ciò che è accaduto agli Armeni sta succedendo ora in Siria. Il Monte Libano, anzi, essendo cristiano, sta soffrendo ancora di più. [...] Non riesco a dormire, né a mangiare, né a trovare pace. […]. Stiamo cercando di fare del nostro meglio, dobbiamo salvare coloro che sono ancora in vita». Dato conto degli aiuti immediati anche da parte dell’amica, Medici descrive nel suo testo l’attività di Gibran come segretario del “Syrian-Mount Lebanon Relief Committee” costituitosi nel giugno 1916 a New York per fronteggiare la carestia. Una responsabilità subito accettata: «Tragedie come questa spalancano il cuore e fanno nascere il desiderio di prestare aiuto al prossimo senza riserva alcuna. Non mi era mai capitata un’opportunità simile per servire il mio popolo. Sono felice di poterlo fare ora e sento che Dio mi aiuterà», confida Gibran in una lettera mentre aumenta la sua consapevolezza di poter fare qualcosa “ grazie al governo americano”. Contatta dunque il Dipartimento di Stato a Washington il 17 giugno 1916 attraverso una lettera indirizzata a Robert H. Lansing, Segretario di Stato durante la presidenza Wilson. Allega ad essa resoconti della stampa araba a conferma di altri di fonte diplomatica sulla tragedia in corso per l’assoluta mancanza di cibo («Mandateci cibo, non oro. Perché se l’oro ci fosse di qualche utilità al momento, avrei già da tempo dato via tutti gli arredi d’oro e d’argento delle chiese per sfamare i bisognosi», si legge in un articolo dove la frase pare attribuita al Patriarca dei Maroniti). Nella stessa lettera a Lansing, infine, Gibran chiede aiuto per far salpare, da New York o dall’Egitto, una nave carica di generi alimentari «per scongiurare, se possibile, gli effetti di una catastrofe che potrebbe determinare la scomparsa di un’intera razza» (la lettera è riportata in questa pagina). Il riscontro del Dipartimento arriva tre giorni rassicurante: l’Incaricato d’affari americano a Costantinopoli informerà il Governo turco che negli Usa «vi è un forte sentimento di solidarietà verso gli abitanti indigenti in Siria e che molte persone negli Stati Uniti vorrebbero, se possibile, mandare aiuti nel Paese». Gibran continuerà ad essere assorbito dall’impegno per il comitato, osservato dalle spie turche, infuriandosi spesso per l’apatia di alcuni siro-libanesi insensibili a tanta sofferenza e disaccordi organizzativi. Mesi di duro lavoro e di totale abnegazione che lo prostreranno. Una lettera del settembre 1916 all’amico poeta Witter Bynner rivela le sue pessime condizioni di salute: «Il superlavoro e la tragedia del mio Paese mi hanno causato un dolore freddo e sordo al lato sinistro del corpo: viso, braccio e gamba». Nonostante ciò Gibran continuò a lavorare perché la nave carica di alimenti salpasse da New York col permesso di approdare a Beirut entro la fine di dicembre. E infatti “la nave di Natale”, come fu soprannominata, partì, ma non raggiunse mai Beirut, bloccata per mesi ad Alessandria d’Egitto, senza poter mai consegnare quanto raccolto e inviato con innumerevoli sforzi. Sin qui la storia. Non meno interessante però, il “recupero” di Medici a conclusione del suo saggio di un numero speciale dell’ottobre 1916 del mensile arabo-americano “al-Funun” (“Le arti”) interamente dedicato alla tragedia in atto. Gibran stesso vi contribuì con tre disegni e con l’elegia Morta è la mia gente, che si conclude con un appello alla solidarietà da parte dei lettori: «Fratello, l’amore che ti fa donare una parte della tua vita a coloro che sono in pericolo di perdere la propria è tutto ciò che può renderti degno della luce del giorno e della quiete della notte. E la moneta che lasci cadere nella mano vuota del mendicante è il cerchio dorato che congiunge l’umano che è in te al divino che è in te».

Un drammatica fotografia della carestia del Monte Libano

Un drammatica fotografia della carestia del Monte Libano - archivio

L'inedito / «Rischiamo l’estinzione»

New York 17. 6.1916
Egregio Signore, quindici giorni fa il Presidente e il Segretario di Stato facente funzioni hanno concesso un incontro a una delegazione della stampa araba di questa cittàper discutere delle drammatiche condizioni in cui versa attualmente la popolazione della Siria e del Monte Libano. L’appello dei delegati affinché il governo degli Stati Uniti interponga i suoi buoni uffici al fine di ottenere per noi il permesso del governo ottomano di introdurre generi alimentari nella regione colpita, ha trovato orecchie e cuori sensibili e comprensivi sia da parte di Sua Eccellenza il Presidente sia degli altri funzionari governativi [...]. Con la presente mi permetto di sottoporre alla Sua cortese attenzione le traduzioni in inglese di alcuni resoconti della carestia che sta affliggendo quei territori, così come sono stati pubblicati di recente sui giornali arabi del Cairo, in Egitto. Tali resoconti, come Lei potrà constatare, confermano tutti i precedenti resoconti trasmessi per cablogramma, così come quelli che il Dipartimento ha ricevuto dall’Ambasciatore francese. La popolazione della Siria e del Monte Libano, Signore, sta effettivamente morendo di fame e di malattie causate dalla malnutrizione. Le sofferenze che quelle genti inermi stanno attualmente patendo sono indicibili e il rischio è quello di una loro totale estinzione. Ci appelliamo a Lei, Signore, noi Siriani di questo Paese, migliaia dei quali sono cittadini americani, a nome della nostra terra afflitta e del nostro popolo affamato. Confidiamo che Lei non mancherà di interporre i Suoi buoni uffici per ottenere a nostro beneficio un permesso da parte del governo turco che ci consenta di poter far arrivare generi alimentari in Siria e nel Monte Libano. In collaborazione con il Comitato Americano, abbiamo ora istituito un nostro comitato di soccorso, e ci prefiggiamo di raccogliere al più presto fondi sufficienti per poter inviare laggiù una nave carica di scorte alimentari. Vorremmo inoltre che la nave salpasse prima del prossimo inverno, da New York oppure dall’Egitto, per scongiurare, se possibile, gli effetti di una catastrofe che potrebbe determinare la scomparsa di un’intera razza. Fiducioso in un Suo sollecito e positivo riscontro, porgo i miei più cordiali saluti.
Gibran K. Gibran, Segretario

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