martedì 3 settembre 2019
Il nuovo allenatore del Milan, discepolo del “profeta” Galeone, è solo l’ultimo dei teorici dell'estetica prima del risultato. Ma da Orrico a Maifredi sono stati tanti i flop
Marco Giampaolo, 52 anni, nuovo allenatore del Milan dopo tre stagioni alla guida della Sampdoria

Marco Giampaolo, 52 anni, nuovo allenatore del Milan dopo tre stagioni alla guida della Sampdoria

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Che questo nostro non è un Paese per vecchi è tutto da dimostrare, ma di sicuro, il nostro calcio, specie ai piani nobili, non è cosa per poeti da panchina. La storia di cuoio racconta che colui che è annoverato in questa categoria degli “intellettuali” prestati al pallone, inevitabilmente verrà poi ricordato come membro della setta dei “poeti estinti”. Sono stati tanti i fini dicitori da bordo campo che hanno provato l’ebrezza dell’attimo fuggente, il passaggio (o salto nel vuoto) dalla panca di provincia a quella della società metropolitana rimettendoci la faccia e azzerando quel quarto d’ora di celebrità faticosamente conquistato, magari nell’arco di una vita. Questo cattivo pensiero ce lo ispira l’ultimo “poetaallenatore” arrivato alla ribalta, il 52enne tecnico del Milan Marco Giampaolo. Un discepolo del “Profeta” dell’Adriatico, Giovanni Galeone, sacerdote laico quest’ultimo, di quel credo di cui dicevamo sopra. Galeone, ai suoi allievi devoti (Gasperini, Allegri, D’Aversa, Giampaolo appunto) ha insegnato che il calcio è prima di tutto “estetica” e “capacità offensiva”, e poi magari anche sostanza, quindi risultato.

Allegri e Gasperini il concetto l’hanno affinato e con successo. Allegri ha vinto sei scudetti, uno con il Milan e cinque di fila con la Juventus, Gasperini ha perfezionato il modello Atalanta esportandolo in Europa fino allo storico ingresso in Champions. D’Aversa si distanzia oltre che tatticamente (rinnegato per ecceso di difensivismo) anche dialetticamente da mastro Galeone, mentre Giampaolo gli re- sta fedelissimo e in conferenza stampa sciorina perle sapienziali che fanno presagire una imminente rivoluzione culturale dalle parti di Milanello. E invece poi ti accorgi che in 180 minuti il suo Milan a trazione anteriore vede la porta come all’equatore segnalano minaccia di neve. Un gol in due partite (a segno il ripescato Chalanoglu, pupillo dell’ex mister Gattuso), estetica poca, spettacolo ancora meno, dubbi - specie dai parte dei tifosi milanisti - tanti. Quaranta giorni per capire che Suso non è proprio il suo trequartista ideale e poi insistere, perché una delle caratteristiche del poeta Giampaolo è la testardaggine. Quel piglio abruzzese (figlio di operai emigranti in Svizzera, dove è nato, a Bellinzona) che però sfocia sempre in orgoglio e dignità. Come quella volta che a Cagliari al secondo esonero rifiutò i denari del presidente Cellino e rescisse il contratto. Cellino adesso è il patron di quel Brescia che ha regalato a Giampaolo i primi tre punti in rossonero, società che il poeta-allenatore ricorda per aver sedotto e poi abbandonato proprio il settembre di sei anni fa.

Popolo milanista occhio a quello che dite e cantate dalla Curva, perché il poeta della panchina è sensibilissimo e suscettibile alla critica feroce, che non sa ancora, forse, che è lo sport preferito delle grandi piazze. Quella volta al Brescia dopo una sconfitta con il Crotone invocarono a gran voce il nome di Calori (il successore) e Giampaolo nella notte si dileguò, scomparve nel nulla, con tanto di segnalazione del suo caso di sparizione alla redazione del programma Rai Chi l’ha visto?. È dovuto ripartire dalla serie C, dalla Cremonese, per rimettersi in carreggiata e continuare a indottrinare le sue squadre sulla necessità di garantire ovunque e comunque il “bel gioco”. Quel canone che a Allegri, peraltro un cultore del bel gioco, è costato il rinnovo della Juventus che ha virato sull’ultraestetico e poetico Maurizio Sarri. Un John Fante della gavetta calcistica che arriva alli, la Juve a 60 anni, dopo il triennio pirotecnico di Napoli, con “zero titoli”, sottolinerebbe Mourinho e un curriculum da montagne russe: dal 2° posto con il club di De Laurentiis all’esonero di Sorrento (C1) nel 2011. Al Chelsea Sarri ha appena vinto l’Europa League, ma come Giampaolo, ora è atteso alla prova del fuoco. Perché per guidare Milan e Juve, club da sempre condannati a vincere, non basta la poesia e non si richiedono neppure filosofi.

Qui sulla tratta Milano-Torino, a turno hanno vinto solo strateghi di campo duri e puri, Trapattoni, Capello, Ancelotti, Zaccheroni, Lippi, Conte. A questo circolo dei nati per vincere fanno eccezione probabilmente Sacchi e Allegri che arrivavano da scuole di pensiero più vicine alle università dei liberi pensatori come Galeone o Zeman. Due filosofi raffinati e complessi che non sono riusciti ad arrivare all’apice. Galeone visse la sua grande illusione quando dopo i fasti di Pescara e Perugia venne contattato dall’Inter di Moratti ma non se ne fece nulla. Zeman ha avuto per le mani sia la Lazio che la Roma e di quelle stagioni sulle due sponde del Tevere si ricordano trame veloci e spettacolari, grandinate di gol (Beppe Signori tre volte capocannoniere con il boemo in panchina) ma nessun trofeo alzato al cielo sopra all’Olimpico. A conferma che non è un calcio per testardi senza gloria, né per poeti, profeti o filosofi.

L’unico “Filosofo” capace di mettere le mani sullo scudetto è stato mezzo secolo fa, Manlio Scopigno. Eroico condottiero del Cagliari leggendario, unico e irripetibile di Gigi Riva. Gli altri due tricolori cuciti al petto di squadre provincia- Verona (stagione 1984-’85) e Samp (1990-’91), portano la firma di due grandi uomini, ma poeti a metà, Osvaldo Bagnoli e Vujadin Boskov. Tattici e strateghi assai distanti dai moduli e le alchimie naif dei pensatori con i piedi come Corrado Orrico. Il Montaigne di Volpara all’Inter post-trapattoniana dei record importò la “Gabbia” con cui allevava i suoi piccoli eroi esemplari alla Lucchese, ma alla Scala del calcio fallì clamorosamente «perché - ci spiegava tempo fa - tutti tranne Klinsmann, si sono fermati alla parte ontica e nessuno è sceso sul piano ontologico per chiedermi la sua reale funzione». Discorsi accademici che nell’analfabetismo di andata e ritorno dell’universo pallonaro poteva comprendere e apprezzare solo il “Professore” Franco Scoglio. Un maniaco delle palle inattive convinto assertore del «ci sono 21 modi per battere un calcio d’angolo e 12 per battere una punizione». Sarri in entrambi i casi vanta un repertorio teorico di almeno trenta modalità alternate ma non direbbe mai come Scoglio: «Abbiamo perso per l’errata applicazione di un meccanismo a “elle” rovesciata».

Sperimentalismo da microrealtà come l’Ospitaletto di Gigi Maifredi, sommelier da stadio e rappresentante de Veuve Clicquot Ponsardin che lì imbottigliava il suo primo calcio champagne poi stappato nel Bologna del suo pigmalione, patron Corioni. Il Bologna di Maifredi portava allegria e l’uomo del calcio champagne lo trovavi all’Osteria dei Poeti «dove fino alle 3 di notte cantavamo con Dalla, Morandi, Guccini e Luca Carboni». Su questo poeta e idolo della scuola dei cantautori bolognesi scommise la Juventus dell’era post-Boniperti che, per intuizione di Montezemolo, sacrificò la bandiera Dino Zoff (dopo aver vinto Coppa Italia e Uefa, stagione 1989-’90) e convinse l’Avvocato a puntare ad occhi chiusi su Maifredi. Storia di una disfatta (14 sconfitte e 12 pareggi in 49 partite) appena narrata con doviziosità di dettagli, anche esilaranti, da Enzo D’Orsi nel frizzante Non era champagne. La Juve di Maifredi, Montezemolo e Baggio( Edizioni inContropiede, pagine 110, euro 14,50). «L’omone era un “visionario”, come Sacchi, meno studioso, ma dotato di più fantasia », scrive di Maifredi - in prefazione - Eraldo Pecci. Un artista dell’astratto il buon Gigi che dopo la pessima annata alla Juventus ha conosciuto una sequela di esoneri (a Brescia nel ’94 dopo aver perso 7 partite su 7) e alla fine l’unica squadra in cui non ha fatto danni è stato il Maifredi Team, alla domenica su Rai 2 a Quelli che... il calcio.

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