venerdì 28 dicembre 2018
Una grande mostra a Genova riscopre il grande artista, inspiegabilmente sottovalutato dagli storici, ma che ha tutte le qualità per reggere il confronto con i maestri del barocco
Anton  Maria Maragliano, particolare della "Vergine annunciata"

Anton Maria Maragliano, particolare della "Vergine annunciata"

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Ha il genio dei grandi del Barocco, ma fino a oggi è stato largamente sottovalutato Una mostra ne svela l’importanza nella scultura lignea tra Sei e Settecento Genova Quanto ancora durerà il cono d’ombra che oscura la scultura lignea? Non la troverete nei manuali di storia dell’arte: e non solo per la pigrizia di programmi scolastici tarati su automatismi che la ricerca ormai ha più volte scardinato, o per la necessità di compiere scelte draconiane – accentuate dalla sciagurata scelta politica di ridure l’insegnamento della materia nelle scuole superiori. Eppure, anche quantitativamente, la scultura lignea compone una porzione importante del patrimonio: non fosse altro perché di gran lunga più economica di quella in pietra e quindi largamente praticata. Una quantità a cui corrisponde qualità. Per averne la riprova si visiti la mostra che Genova dedica al più grande dei suoi scultori in legno, Anton Maria Maragliano. Figura antonomasica al punto che «la sovrapposizione del nome dell’artista genovese all’intero fenomeno della scultura lignea in Liguria è un aspetto vertiginoso e unico», osserva nel catalogo (Sagep Edizioni) Luca Leoncini, direttore della mostra curata da Daniele Sanguineti: un fenomeno che ha trasformato Maragliano in un nome buono per sculture di ogni fatta ed epoca. Il lavoro filologico e documentale sta mettendo ordine in un mondo vasto e ricco di capolavori.

Sì, capolavori: perché dalla mostra si esce persuasi che Anton Maria Maragliano sia uno dei grandi del barocco. Nato nel 1664 e morto a 1739, è autore di sculture devozionali, pale d’altare e, soprattutto, di “casse” processionali, enormi macchine composte da gruppi scultorei, spesso a grandezza naturale, che richiedono molte braccia per essere trasportate. Maragliano è il regista della devozione delle “casacce”, le confraternite di disciplini di origine laica. È un fatto rilevante che queste macchine processionali, realizzate non solo per tutto l’arco ligure, da Rapallo a Savona, siano utilizzate tuttora. La mostra procede in modo cronologico, dal San Michele Arcangelo (1694), leggerissimo e drammatico di Celle Ligure e dal San Sebastiano (1700) di Rapallo, una delle sue sculture più note alla critica, ricco di dettagli in equilibrio tra compostezza e gusto patetico, passando per il magnetico Sant’Erasmo (1711) che avanza proiettato velocissimo nell’aria fino a una grandiosa galleria che illumina il lungo lavoro di Maragliano attorno al rinnovamento dell’immagine del Crocifisso, che da una dolcezza ideale di stampo reniano volge a un pathos crescente fino a esiti di drammatico realismo in cui si manifesta un’adesione alla solitudine di Cristo.

Ma sono le grandi macchine per le confraternite e i gruppi per la Passione il culmine della mostra. Ha una spettacolarità persino “cinematografica” la Morte di san Paolo eremita (1709-1710), in cui Mara- gliano combina spirito teatrale ed estrema cura del dettaglio, la verità delle espressioni e il dinamismo della sfolgorante ascesa di Cristo sorretto dagli angeli. Un moto a spirale accomuna l’avvitarsi reciproco delle figure della Vergine e dell’angelo nell’Annunciazione di Savona (1722) e il tardo, complesso Martirio di santa Caterina (1735-36). Emotivamente travolgenti l’Incoronazione di spine e l’Orazione nell’orto dei “misteri” di Savona e la Deposizione dalla Croce di Genova. Luca Leoncini ricorda come la mostra Like Life. Sculpture, Color and Body (1300-now), svoltasi la scorsa estate al Metropolitan Museum di New York, che indagava, tra le altre cose, «motivazione, ricezione e sostanza della scultura in legno nella cultura artistica occidentale».

L’esposizione newyorkese, segno di un cambiamento in atto nei confronti di questo genere, «muoveva dal rapporto col bianco, dalla scultura monocroma», dall’«arroganza del bianco e la sua mitologia, la sua supposta superiorità sul colore », e quindi sottolineava il «rapporto genetico tra la scultura lignea e il culto delle reliquie»: i reliquiari erano chiamati a rappresentare quelle parti anatomiche di cui custodivano i frammenti, «con la policromia a ricreare il color della carne, spesso realizzata da artisti specializzati, quando le corporazioni dei pittori vietavano agli scultori di dipingere». Non stupisce che sia il barocco il momento in cui la scultura lignea, praticata da secoli in pale d’altare, gruppi scultorei e statue processionali, esploda su vasta scala. La stagione estetica che più esalta i sensi, mezzi privilegiati prima ancora dell’intelletto per accedere al mistero, poiché non c’è soluzione di continuità spaziale con il soprannaturale, non poteva non apprezzare le qualità realistiche, se non iperrealistiche, di questa tecnica.

Ma a ben vedere non c’è reale opposizione tra il marmo monocromo e il legno policromo. Sono due articolazioni, una aulica e una popolare, di uno stesso sentire. Articolazione che si allarga espandendo lo sguardo agli altri ambiti. Sotto questo profilo si può forse leggere, allora, la ricca circolazione di modelli che la mostra puntualmente ricostruisce – ed è un pregio didattico, perché nella chiarezza della struttura, insegna a guardare – che sottostà alle opere di Maragliano e a cui contribuisce lo stesso scultore. Sono le opere pittoriche dei Piola, di Gregorio De Ferrari ma anche di Van Dyck, che a Genova aveva la base nei suoi anni italiani; e poi i marmi di Pierre Puget, il più italiano degli scultori francesi attivissimo sotto la Lanterna, i Parodi, la dinastia di scultori genovesi per eccellenza (senza dimenticare echi berniniani, dalle soluzioni compositive ai singoli dettagli); e infine i maestri del legno della generazione precedente, da Giovanni Battista Bissoni a Marco Antonio Poggio.

Questo vorticare di modelli da un ambito all’altro, fa sì che ancor più di una cultura visiva si costruisca nel tempo un vero e proprio ecosistema visuale, condiviso non solo dagli artisti ma, in modo più o meno cosciente, dalle varie fasce delle popolazione. L’immagine “fissa”, venerata sugli altari, non solo rimbalza di chiesa in oratorio in santuario, ma nella forma delle casse processionali si sposta nella città. I gruppi scultorei di Maragliano sono teatro in movimento. Per via del loro uso sono progettati per avere vedute plurime: e sempre valide e sorprendenti. È un pensiero tridimensionale complesso che adotta, ribaltata come un guanto, la logica dei sacri monti, di cui questi gruppi costituiscono la versione mobile: come nelle cappelle montane – almeno in origine – era possibile aggirarsi all’interno della scena, attivando un processo empatico di immedesimazione, così le figure della storia sacra escono dai luoghi di culto e si muovono per la città. Immagini persuasive perché toccano le corde emotive più profonde.

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