giovedì 6 agosto 2015
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Il giallo sole di un campo di grano, il verde di un prato che si alterna alla terra. L’orizzonte che taglia l’azzurro del mare e quello del cielo. Ma anche le geometrie urbane di strade e palazzi. Quei colori e quei paesaggi erano lì – in Puglia, Sicilia, Basilicata, Liguria, fino a Los Angeles e New York – . Semplicemente nessuno li coglieva. Poi Franco Fontana li ha fatti vedere a tutti. «L’arte rende visibile l’invisibile», sintetizza così il suo cammino, il maestro (fotografico) del colore che ha avuto il coraggio di “osare” in un mondo artistico che parlava, almeno al tempo dei suoi esordi, con il ritmo del bianco e nero. Come se non ci fossero i colori. Come se il colore fosse «un difetto». Un “eretico”, insomma. «L’invisibile che non c’è non lo inventa nessuno. Guardare significa capire quello che vedi e poi testimoniarlo ed esprimerlo », continua il fotografo di Modena (come l’amico Luigi Ghirri), che incontriamo dopo una visita all’Expo di Milano. Il suo motto è in una massima di Picasso: «Non bisogna andare a cercare, ma a trovare». È qui il cuore di tutto: «Non è che mi alzo e vado a zonzo con la macchina fotografica. No, devo sapere cosa cerco. Prima della macchina fotografica conta la testa, il pensiero, il progetto che hai maturato. La materia prima è a disposizione di tutti: non esiste una chiave per riuscire a fare le fotografie. Ciascuno vede quello che vede. Michelangelo con il marmo ha fatto La Pietà e qualcun altro solo un posacenere. Lo stesso per la scrittura, c’è chi scrive un pensierino e chi, come Dante, la Divina Commedia. Per questo la fotografia è la disciplina artistica più difficile, proprio perché è la più facile: con lo stesso alfabeto, tutti possiamo scrivere cose diverse». È quello che accade a Baia delle Zagare, nel 1970, quando Fontana su un ascensore panoramico con altri amici e colleghi, scatta una delle sue foto più celebri: il mare, la sabbia, il cielo e quell’ombra “magica” di una montagna. «Quella visione era lì. Aspettava che qualcuno la vedesse». Come l’orizzonte argentato del Mare Ligure (2005): parla al cuore dell’anima. «L’orizzonte è quello verso cui continui a camminare e non raggiungi mai. È la storia della vita». 

Puglia, 1987Speranza? Utopia? «Certo». Che forse vale anche per l’Italia, che Fontana ha girato, visto e «trovato» in migliaia di scatti. E allora quale speranza per l’Italia che verrà? Quale visione? «La speranza lascia morire digiuni», rimbalza con una battuta e il tono allegro di un modenese cresciuto a «salame e lambrusco» e che non ha mai abbandonato le proprie radici e il suo spirito emiliano. Poi più serio: «Bisogna sperare, certo. Ma anche vivere. La vita va vissuta pienamente. Noi rispondiamo di quello che facciamo. La fotografia per me non è una professione, è la mia vita. Ho scelto di fare il fotografo a 40 anni per dare qualità alla vita e significarla, per inseguire la mia vera passione e restare sempre giovane».A 82 anni, in effetti, sembra che per Fontana il tempo non passi. «C’è chi muore a vent’anni ed è sepolto a settanta. Non si è mai troppo vecchi per essere felici e per vivere. È grazie alla morte che c’è la vita. E per questo va vissuta. Non è il tempo che passa, siamo noi che passiamo. Il tempo ci aspetta; noi arriviamo e ce ne andiamo. È il presente che è eterno, che non si ripete mai. È la cosa più creativa che esista. Hai visto mai una mattina uguale all’altra? Il vero sapere viene dalla vita».È un percorso antropologico, quasi spirituale, quello di Fontana che nelle sue lezioni, dalla Triennale di Milano al Maxxi di Roma fino al mitico Guggenheim di New York, dipinge una “filosofia” di vita. «La fotografia è cultura, è vita. Io ho la quinta elementare, ma mi sono fatto da solo inseguendo la mia passione. E ora faccio lezioni all’università. Non è meraviglioso? Non interessa cosa fai, ma come lo fai». Principi zen che Fontana applica all’arte dell’istante. «Può sembrare strano, ma anche le mie visioni non sono mai le stesse. C’è sempre qualcosa di diverso persino in un soggetto apparentemente immobile, come un paesaggio. Eppure ogni secondo scandisce una diversità da cogliere. Un albero è un albero. Ma cambia continuamente per restare un albero». Fontana è un entusiasta della vita. Per questo non c’è nostalgia per un’Italia che sembra diversa rispetto al suo Skylinedel 1978, il suo primo e celebre volume pubblicato dalla casa editrice “Punto e Virgola”, fondata proprio da Luigi Ghirri a Modena (Skyline è stato ristampato pochi mesi fa da Contrasto, pagine 96, euro 35,00).

Cadaques, 1975I suoi colori (e paesaggi) restano attuali. Sono intramontabili. Non può dunque esserci dispiacere: «Perché senza cambiamento non c’è crescita». Il Paese può cambiare, «sono i sentimenti che restano eterni, come l’amore ». Certo, ammette, «una volta era tutto una conquista. I miei figli, i miei nipoti sono andati e vanno in giro per il mondo, vestono con abiti firmati e hanno tutto a disposizione. Questo smorza il senso della conquista. Quando mio padre, durante la guerra, ci portava tre fette di salame, con i miei fratelli ci mettevamo ore a mangiarle e chi finiva prima guardava gli altri con gli occhi spalancati. Ora si dà tutto per scontato. Sono tutti, o quasi, come disse un ministro ( Tommaso Padoa-Schioppa, ndr) “bamboccioni”, sì! Sono intelligenti come chi li ha preceduti, forse anche di più, ma stanno alla finestra e tutto gli arriva lo stesso. Viene meno la conquista. Mentre le cose si conquistano. E conta quello che conquisti da solo, senza scorciatoie. Solo così ci si arricchisce di quello che si è».  Uno stile di vita che impone «il rischio», l’abbandono «di sicurezze e pantofole» per andare sempre «verso territori incolti». «Il rischio è alla base di tutto: è il cambiamento che fa crescere ». Così il dibattito sulla modernità, il digitale e il boom della fotografia nell’era degli smartphone e del “siamo tutti fotografi” non lo appassiona: «Ben venga il progresso se aiuta a realizzare meglio quello che pensiamo», dice prendendo le distanze da quelli che definisce «i “talebani” dell’analogico». «Il problema non è lo strumento, è quello che fotografi. È quello che sei». Non a caso, se gli si domanda che macchina usa, la sua risposta è «la testa»: «Anche la scimmia può scattare. La differenza sta nell’interpretazione, in quello che vedi. La fotografia è la cosa più facile da fare e la più difficile da concretizzare».

PugliaE allora quei paesaggi che sembrano astratti, arte pura, colore e basta, dicono molto altro. «Parlano di te». Sono foto apparentemente lontane da quella che può definirsi una fotografia “sociale”. Ma è sociale anche lei. Perché è umana. «Padre Bruno, dell’Istituto San Fedele di Milano, mi chiese anni fa una foto per rappresentare la vita di san Francesco: un orizzonte dove cielo e mare si coinvolgevano e si toccavano. Non era una illustrazione. Era un pensiero. Uno specchio per l’anima». I paesaggi dell’anima da esplorare. Ma anche i paesaggi urbani, delle città che viviamo. E del futuro, del mondo che verrà. I «paesaggi immaginari » che mixano il cielo e la terra, le nuvole e il mare, ribaltano prospettive e visioni. La «sintesi» di due paesaggi esistenti. La visione futura di Fontana è in questo lavoro. Un mondo «immaginario», ma «vero»: «Non inventi niente di quello che non esiste. Si può costruire solo quello che esiste». Nelle sue lezioni, prima di cominciare a parlare, Fontana proietta una frase di Otto Steiner: «La creazione fotografica assoluta nel suo aspetto più libero rinuncia a ogni riproduzione della realtà, perché riprodurrebbe il visibile». La realtà è soggettiva. È l’occhio del fotografo in una dimensione spaziale che cerca di capire «cosa può mostrare». Fontana “trova” le sue vedute. Un esercizio per i giovani allievi che seguono i suoi workshop. Con l’invito, quasi fosse un “consiglio di vita”, a tirare fuori un colore da una visione e trasmettere «quell’invisibile che prima non vedevi». Anche il posto più grigio, così, può regalare lo stupore. No, Fontana non poteva essere in bianco e nero.

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