Antonio Moro, “Ritratto di Filippo II” (1557, museo del Prado)
A vederlo così, chiuso nella sua armatura niellata d’oro come ce lo ritrae Anthonis Mor van Dashorst (“Antonio Moro”) nel celeberrimo ritratto del Prado, gli occhi severi e malinconici e la piega amara della bocca, la mano sinistra sul pomo della sua bella spada toledana, appare il ritratto dell’austerità e della tristezza. Ed è la sintesi paradossale, perfetta, tra la nobile bruttezza del padre Carlo V e l’abbagliante bellezza della madre Isabella di Portogallo. Lui, Filippo II d’Asburgo, el Rey Prudente: settantun anni di vita tra 1527 e 1598 e quarantadue di regno formalmente pieno, dal 1556 (ma in realtà aveva collezionato titoli e uffici già da prima, almeno dal ’51 quando era stato riconosciuto “signore naturale” del regno di Navarra). Una vita trascorsa tutta nel potere, nella fede cristiana fervida e incrollabile, nel lavoro instancabile, nei molti dolori. Su Filippo II continua a aleggiare, complici disinformazione e pigrizia intellettuale, una pervicace leyenda negraalimentata dalla sua fama di sovrano assoluto che avrebbe regnato facendo spregiudicato uso dell’inquisizione, di persecutore degli eretici e dei moriscos, di assassino del proprio figlio don Carlos per torbidi e tortuosi motivi di gelosia (Giuseppe Verdi ha danneggiato la sua fama più di una legione di storici e di eruditi maldisposti) e forse di non estraneo nemmeno alla morte del suo affascinante e intraprendente fratellastro don Juan de Austria, l’eroe trionfatore di Lepanto. Ma l’intera, imponente biblioteca di opere storiografiche scritte su di lui finisce, nonostante tutto, di fornire al suo riguardo un quadro ben diversamente articolato.
Angelantonio Spagnoletti, modernista emerito dell’Università di Bari e studioso davvero “di lungo corso” della Spagna asburgica, dell’Italia meridionale e dei loro rapporti tra Rinascimento ed età barocca, ci fornisce adesso con il suo Filippo II (Salerno Editore, pagine 377, euro 24,00) un ritratto del secondo re asburgico di Spagna che, se non è del tutto nuovo, non lo è proprio in quanto sono stati gli studi di Spagnoletti stesso a modificarne l’immagine stereotipa imprimendole una versione originale e spregiudicata, serenamente limpida eppure animata da un fuoco interiore che riesce ad affascinarci. Avvertiamo subito che, nonostante questo libro sia il n. 76 della celebre collana “Profi- li” fondata dal grande Luigi Firpo e poi a lungo magistralmente diretta dall’indimenticabile Giuseppe Galasso (al quale sono succeduti, ora, Andrea Giardina e Gherardo Ortalli), con esso non siamo per nulla dinanzi a una biografia “classica”. Gli elementi tanto critici quanto eruditi d’un genere storiografico spesso criticato e talora bistrattato, ma che pur resta principe (specie nei favori di un pubblico magari di non specialisti, comunque attento ed esigente), intendiamoci, ci sono tutti.
Eppure, piuttosto che una biografia, questa si prospetta come una vera e propria monografia nella quale – al di là dello stile, che si presenta a tratti avvincente come un romanzo – gli elementi critico-esegetici prevalgono nettamente sul più rassicurante (ma spesso più noioso) modulo narrativo. Il che, tuttavia, richiede pur qualche precauzione da parte del lettore. Siamo davanti a un libro che va affrontato non prima di essersi “rinfrescati” il quadro di riferimento generale. Spagnoletti propone una scansione del suo racconto in otto blocchi dei quali a ben guardare solo i primi due seguono gli eventi in ordine cronologico, mentre l’ultimo costituisce da solo una sorta di epilogo. Gli altri cinque, strutturati con rigore tematicosintetico ma che mettono talvolta a severa prova la memoria del lettore, riguardano rispettivamente le istituzioni e il funzionamento della Monarchia di Spagna, la famiglia reale (e il segretario Antonio Pérez, un personaggio-chiave), la religiosità e i rapporti con la Chiesa cattolica, la complessa politica estera, gli immensi territori di Ultramar di un impero esteso dal Nuovo Mondo all’Estremo Oriente e sul quale notoriamente nell’arco del giorno il sole non tramontava mai ( donde nunca se acuesta el sol).
Ecco, e non è consueto, un libro letteralmente dal quale giunti all’ultima pagina ci si distacca con rammarico. E, se non si fa molta attenzione, se ne esce con un’immagine che nonostante gli errori e anche qualche orrore dei quali il protagonista si rese responsabile, quasi rovescia l’immagine derivata dalla leyenda negra e dalla calunniosa ombra lasciata dal “capolavoro” verdiano. Il che forse non sarebbe in fondo nemmeno granché giusto. Ma il drastico ridimensionamento di quell’infame macchinazione ideologica inglese e protestante che fu la leyendaè sacrosanto. Un sovrano severamente ma tutt’altro che fanaticamente cattolico, che al suo rapporto con la Chiesa di Roma, non sempre idilliaco, guardò certo con l’occhio strategico e utilitario dell’instrumentum regni ma anche con la coscienza profonda dei doveri del monarca in quanto «primo servo di Dio»; uno statista accorto e infaticabile, che dal fondo della sua vera capitale (non tanto Madrid, che pure egli volle come sua sede e che fu una sua creatura, quanto il mirabile e terribile monastero-palazzo-corte-archiviosepolcreto del complesso di San Vincenzo dell’Escorial, in piena Sierra Guadarrama) e continuamente immerso nelle sue carte, senza darsi riposo e senza quasi mai uscire dal suo gabinetto di lavoro, controllava minuziosamente tutto l’impero.
Spagnoletti dedica pagine fondamentali e indimenticabili, fra l’altro, al suo tormentato rapporto con Elisabetta d’Inghilterra dal mancato matrimonio, che avrebbe forse cambiato le sorti del mondo, fino alla rotta dell’Invencible Armada del 1588; alle sue davvero oceaniche attenzioni e ambizioni riguardo all’immenso impero che abbracciava due oceani; al funzionamento a modo suo inappuntabile e implacabile della Santa Inquisizione; alla rivolta dei moriscos nel 1568 e al loro triste, commovente destino; infine alla sua tormentata ma implacabile (e, c’è da crederlo, inevitabile) risoluzione che condusse alla morte il suo inquietante e insopportabile primogenito don Carlos. Danno i brividi, a rileggerle tenendo presente il destino che un decennio più tardi avrebbe atteso lo scia- gurato principe ed erede, le parole dal re pronunziate durante l’auto de fe- celebre e spettacolare - dei condannati per sospetto luteranesimo a Valladolid il 21 maggio del 1559. Tra loro c’era il nobile Carlo de Sesso, già collaboratore di Carlo V, il quale si rivolse al nuovo sovrano poco più che trentenne rinfacciandogli la sua infamante condanna al rogo che non gli sarebbe spettata dato il suo alto rango. «Porterei personalmente io stesso le fascine di legna per bruciare mio figlio - gli rispose il re - se fosse malvagio come voi». Presentimento? Contrappasso? Atroce ironia della storia? Anche la fine di Filippo fu, a modo suo, esemplare.
Era vissuto circondandosi di costante riserbo, curando in modo quasi maniacale - almeno per quei tempi - l’igiene personale, facendo estrema attenzione a mantenere alta e veramente regale anche la dignità del suo aspetto fisico: morì nel lento disfacimento del corpo, nella più rivoltante e penosa delle agonìe, nel fetore dell’infezione purulenta e delle feci. La sua agonìa coincise con l’inizio lento ma irreversibile di quella del suo impero. Era il fatale 1598, quarant’anni dopo la morte del padre, dieci dopo la sconfitta dell’Armada, pieno zeppo di sinistri segni celesti - le eclissi - e di disastri, mentre le finanze regie e la vita civile dell’impero cominciava a subìre il crudele contraccolpo dell’inflazione e della bancarotta e le rivolte serpeggiavano. Il re moriva, la Monarchia di Spagna estesa sull’orbe terraqueo cominciava a morire con lui. La sua agonìa sarebbe durata tre secoli per chiudersi sull’infausto 1898, l’anno della fine della guerra di Cuba, sotto i colpi degli Stati Uniti d’America: millantati e falsi liberatori, come al solito.