venerdì 10 giugno 2022
Alla Fondation Beyeler di Basilea una mostra sul pittore olandese a 150 anni della nascita con molte opere della meno nota fase giovanile. Alla base una ricerca teosofica
Piet Mondrian, “Bosco a Oele”, 1908

Piet Mondrian, “Bosco a Oele”, 1908 - / © Mondrian/Holtzman Trust

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Può trarre in inganno il titolo della grande mostra su Piet Mondrian aperta da pochi giorni alla Fondation Beyeler: “Mondrian Evolution”. Con un riflesso pavloviano rischiamo di abbinare il termine evoluzione a un processo di selezione darwiniano. O meglio alla sua vulgata: una linea progressiva di trasformazione e affinamento che forse ha più a che fare con i rimasticamenti dell’idealismo hegeliano, tuttora cassaforma culturale della scuola italiana. La mostra a Basilea, curata da Sam Keller e Ulf Küster in occasione dei 150 anni della nascita dell’artista, segue il percorso di Mondrian dagli esordi negli anni ’90 dell’Ottocento come pittore di paesaggio fino all’approdo all’astrazione geometrica, per la quale è celebre, con De Stijl e il Neoplasticismo tra anni ’20 e ’30 del Novecento.

Dobbiamo leggere il percorso di Mondrian in chiave evolutivo- finalistica? Il racconto della storia dell’arte ci ha abituati a sequenze lineari e apparentemente necessarie, una tassonomia di premesse e conseguenze. Quando invece, come è in realtà il processo evolutivo, è un percorso tortuoso, multiplo, irto di vicoli ciechi. Un sistema di passaggi e slittamenti nei quali la parola progresso è priva di significato. La prima sala si propone come una sintesi ma anche un gioco di specchi: in ogni caso vertiginosa. Un piccolo dipinto, un interno fiammingo del 1893 circa, è affiancato a una Composizione in bianco e nero del 1934. Lavori antitetici, eppure dipinti con lo stesso rigore solenne. È solo una suggestione riconoscere nelle piastrelle bianche separate da fughe nere e nelle linee verticali delle travi sullo sfondo gli elementi che nel secondo saranno ormai costitutivi? Gli altri due dipinti sono un incendiario Bosco presso Oele, del 1908, e New York City 1, del 1941 (il quadro più tardo di tutta la mostra). In entrambi i colori sono tre, rosso giallo e blu. Ed entrambi sono costruiti su un intreccio di griglie e sulla preferenza per la planarità.

No, l’evoluzione di Mondrian non è una questione meccanica – anche se in qualche sala l’allestimento ci gioca, come in quella che accosta le vedute del faro gotico di Westkapelle alla Composizione con blu e bianco del 1936, che ha la forma di un rettangolo allungato: ma qui è una forzatura percettiva, dovuta allo studio della verticalità al centro degli altri dipinti. Nel Mondrian dell’astrazione “matura”, il problema dell’immagine è una tensione di rapporti interni a un campo che è sempre zenitale. Il catalogo (curato graficamente da Irma Boom) in questo è assolutamente chiaro ed esemplare. Il termine “evoluzione” va inteso in senso spirituale, e in particolare in senso teosofico.

Piet Mondrian, “Composizione con giallo e blu”, 1932

Piet Mondrian, “Composizione con giallo e blu”, 1932 - / © Mondrian/Holtzman Trust

La pittura di Mondrian, tanto figurativa quanto astratta (e in questo è del tutto parallelo a Kandinskij), ha un fondo latamente religioso e sostanzialmente gnostico. Evolutie è il titolo di un celebre trittico del 1911. Come scrive Ulf Küster, «Mondrian non usa il termine evoluzione in senso darwiniano. Per lui, evoluzione significava un accumulo di nuove esperienze che conducono a un nuovo livello di sviluppo artistico, e di conse- guenza a una comprensione più profonda». La pittura è uno strumento di ricerca e di rappresentazione della conoscenza della realtà e della sua più intima struttura. Retrospettivamente le esplorazioni, spesso cronologicamente sovrapposte, da una pittura radicata nell’esperienza fiamminga (Benno Tempel analizza con efficacia il legame con la Haagse School, la “scuola dell’Aia”, una pittura di paesaggi ma dal sostrato intensamente religioso) alla trasfigurazione cromatica sulla scia di Van Gogh (i quadri “luministi”), dai paesaggi dai timbri acidi e le stilizzazioni di chiaro stampo simbolista alle scomposizioni cubiste fino all’approdo definitivo all’astrazione, sono unificate da questa ricerca del cuore spirituale del mondo. Un cuore che Mondrian intende essere insieme geometrico e vibrante.

A unificare i diversi volti di Mondrian (le copertine del catalogo vedono i ritratti dell’artista da giovane e da anziano) non è allora una semplicistica risonanza formale ma meccanismi più profondi e sostanziali. C’è innanzitutto la questione della visione e della luce. La percezione della struttura profonda non può che passare dalla superficie. La luce è la guida a questo processo di scomposizione e ricomposizione, una luce che è indagata, sulla scia della Farbenlehre di Goethe, soprattutto al tramonto: non solo un momento in cui si generano relazioni cromatiche inusitate ed estreme, ma anche un’area liminale, una varco di energia generata dall’attrito tra due mondi statici. Alla luce, in questa ricerca dei «fondamenti delle cose» si sovrappone poi, fino anche alla sostituzione, il tema del segno. Una dimensione grafica prima esuberante ma che rapidamente si raffredda e solidifica nell’angolo retto, quindi si asciuga fino ad arrivare, nel giro di qualche anno, alla sintesi, meditatissima ma così rarefatta da apparire eseguita come in un solo respiro, del neoplasticismo. Mondrian voleva questi dipinti appesi senza cornice. Egli stesso modula il passaggio dalla tela alla parete attraverso una serie di riquadri a scalare, così che l’immagine appare come una increspatura dello spazio.

Nel suo saggio Benno Tempel sottolinea con efficacia altri elementi di continuità. Il primo è lo “sguardo concentrato” che nella fase figurativa opera dei veri e propri zoom su un soggetto all’interno di una scena affollata, una specie di ingrandimento che gli consente di gestire gerarchicamente la composizione e insieme enfatizzare piano ed elementi lineari. Il secondo è la capacità di organizzare una struttura dinamica attorno a un centro delocato, spesso un vuoto denso e dalla forza radiante. Quello che si articola attorno è un problema di ritmo. Alla dimensione ritmica (Mondrian, per inciso, era un abile ballerino e amava il jazz e il boogie woogie) è dedicato un saggio di Caro Verbeek, che individua pattern di ripetizione e variazione ritmica nei dipinti di paesaggio ma soprattutto riconosce nel tempo una liberazione del ritmo dalla semplice scansione in parti uguali dello spazio. Non è una questione irregolarità ritmica, ma di articolazione.

Lo storico dell’arte Eiichi Tosaki ha appurato che Mondrian percepiva un ritmo regolare basato sulla ripetizione e simmetria come qualcosa che evidenzia la divisione, non l’unità. È esattamente quanto afferma Olivier Messiaen quando discute del ritmo, che per lui non è quello assertivo, ripetitivo e simmetrico ad esempio di una marcia militare, come in qualche modo invece si potrebbe istintivamente affermare. Per il compositore francese il più grande “ritmista” di tutti i tempi è Mozart: una musica solo apparentemente regolare e invece attraversata all’interno del piano armonico da tensioni e vettori grazie a una estrema varietà di accentuazioni ritmiche della melodia disallineate dall’accento “tonico”. Se ne sposti una crolla tutto. Come in un quadro di Mondrian.

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