martedì 2 giugno 2020
Un'innovativa biografia firmata da Auria contribuiscono nel cinquantenario della morte a mettere in una nuova luce molti aspetti della vita a tratti contraddittoria del poeta
Giuseppe Ungaretti durante la Prima guerra mondiale

Giuseppe Ungaretti durante la Prima guerra mondiale - WikiCommons

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«È un poeta difficile», diceva Giuseppe Ungaretti di William Blake, al quale sosteneva di aver dedicato «più di sette lustri» della sua attività di traduttore. Giudizio singolare, specie se si ricorda che nel 1965, quando lo formulò, lo stesso Ungaretti era a sua volta considerato autore di non facile lettura. Esattamente dieci anni prima, nel 1955, l’Accademia di Svezia aveva giudicato «poco accessibile» la sua poesia, tornando così a negargli il premio Nobel al quale Ungaretti aspirava da tempo e che, con suo conclamato dispetto, andò nel 1959 a Salvatore Quasimodo. Per una fortunata coincidenza, nel cinquantesimo anniversario della morte del poeta - avvenuta a Milano nella notte tra l’1 e il 2 giugno 1970 - la riedizione delle sue Visioni da Blake torna in libreria a fianco di una biografia molto ben informata e largamente innovativa, specie per quanto riguarda il versante politico. In La vita nascosta di Giuseppe Ungaretti (Le Monnier, pagine XVI+460, euro 32) Claudio Auria passa infatti in rassegna una mole impressionante di documenti, spesso correggendo il racconto ufficiale che lo stesso Ungà - il soprannome era stato coniato dall’amico Jean Paulhan - aveva avallato nel corso del tempo.

A volte sono piccole civetterie, come la rievocazione di immaginari viaggi «in Persia, in India, per la grande via di Alessandro», oppure i pretesi «studi classici» svolti ad Alessandria d’Egitto dove Ungaretti era nato l’8 febbraio 1888 e dove, in realtà, aveva ottenuto un diploma da ragioniere, poi nobilitato dal fondamentale biennio di apprendistato alla Sorbona. Più arduo da giustificare è invece il pur comprensibile tentativo di prendere le distanze dal fascismo, col quale Ungaretti intrattenne un rapporto che andava molto al di là della famosa prefazione al Porto sepolto dettata da Benito Mussolini nel 1923: un testo che per il poeta «fu motivo d’orgoglio per un ventennio e causa di preoccupazione per il resto del- la sua esistenza», come giustamente osserva Auria. Corrispondente del 'Popolo d’Italia' da Parigi e poi impiegato all’ufficio stampa del ministero degli Esteri (da cui fu licenziato per scarso rendimento nel 1931), protagonista di conferenze propagandistiche in diversi Paesi e destinatario della speciale sovvenzione che il regime riservava a un ristretto gruppo di intellettuali, Ungaretti si impegnò molto per entrare nell’Accademia d’Italia e per farsi assegnare una cattedra universitaria, riuscendo nel duplice intento solo alla fine del 1942, pochi mesi prima della caduta del fascismo. Da qui, tra l’altro, la difficoltà a farsi confermare nel dopoguerra un insegnamento inizialmente attribuitogli 'per chiara fama'.

Auria si spinge a parlare di «opportunismo», precisando subito che nel caso di Ungaretti non si trattava «di un opportunismo teso al solo tornaconto personale, ma di un opportunismo che, cogliendo e sfruttando le occasioni che gli si presentavano, mirava a ottenere il riconoscimento del valore della propria poesia e a realizzare il proprio compito di poeta». Del resto, un testimone d’eccezione come Giovanni Ansaldo (autore tra l’altro del primo, e a lungo dimenticato, profilo biografico di Ungà, adesso riprodotto nel volume di Auria) così annotava nel suo diario: «Quanto alla politica, Ungaretti non sa neppure lui cosa pensi; ammira Mussolini ma poi, in fondo, è sempre uno sbandato, un vagabondo lucchese, la sua indipendenza e la sua strafottenza si fanno risentire in tutti i suoi giudizi». Ne danno conferma i diversi episodi, dettagliatamente ricostruiti in questa Vita segreta, nei quali la notoria intemperanza verbale di Ungaretti rischiò di tirargli addosso l’accusa di scarso patriottismo fascista.

Meno ampia, ma altrettanto interessante è la documentazione offerta da Auria sul tema della religiosità di Ungaretti, che già in una rara intervista del 1934 - e quindi negli anni che precedono la composizione del Dolore, il libro segnato dalla morte del figlio Antonietto nel 1939 - esprimeva la convinzione che la sua poesia sarebbe uscita «trasfigurata » dall’incontro con la fede: «C’è una grande agitazione in me, ma aspetto con fiducia il sereno», diceva. Di sicuro quello della conversione fu un percorso estremamente complesso, nel quale la personalissima rilettura della lezione leopardiana non ebbe meno peso del legame con personalità autorevoli del cattolicesimo italiano, tra cui don Giuseppe De Luca. Nell’opera di Ungaretti - interamente disponibile nel catalogo Mondadori - le traduzioni occupano comunque un posto di rilievo. Lo sosteneva lo stesso poeta in una lettera a Giuseppe De Robertis, spiegando che le sue scelte di traduttore potevano mettere in risalto «le due correnti che s’agitano in me, a volte drammaticamente e in modo insanabile: la corrente di scuola o petrarchesca, e la corrente di vena e d’estro ». Con la versione della Fedra di Jean Racine, le Visioni di Blake sono la prova più alta dell’Ungaretti traduttore, che nei versi e nelle tavole dell’irrequieto artista londinese riconosceva il dispiegarsi del «miracolo della parola». Ed è grazie alla parola, affermava Ungaretti nel sintetico Discorsetto del traduttore premesso alle Visioni, che «il poeta si può arretrare nel tempo sino dove lo spirito umano risiedeva nella sua unità e nella sua verità, non ancora caduto in frantumi, preda del Male, esule per vanità, sbriciolato nelle catene e nel tormento delle infinite fattezze materiali del tempo». Una dichiarazione di poetica che si applica perfettamente a Vita d’un uomo, il titolo sotto il quale è radunato il corpus ungarettiano. Certo, la biografia resta in parte contraddittoria, ma è lo stesso Discorsettoa metterci sull’avviso: «La vita non è di per sé leggendaria, se è vita?».

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