venerdì 28 ottobre 2022
Cento anni fa l’evento sancì l’ascesa di un movimento di tale eversiva modernità che anche le menti più illuminate lo sottovalutarono
Fascisti marciano verso Roma (28 ottobre 1922)

Fascisti marciano verso Roma (28 ottobre 1922) - WikiCommons

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Il 26 ottobre 1922 iniziò la marcia su Roma che si concluse il 28 con l’ingresso nella capitale di circa 20.000 squadristi, coordinati da 4 quadrumviri nominati da Benito Mussolini, il quale non partecipò alla marcia, dirigendola da Milano. L’operazione ebbe come quartiere generale Perugia, ma i 20.000 erano confluiti prima in tre sedi nel Lazio, una in Campania e raggiunsero Roma soprattutto in treno. Nessuna opposizione incontrarono da parte dei 28.000 mobilitati dal governo, tra le forze dell’ordine, col teorico proposito di fronteggiare e/o impedire l’ingresso degli squadristi nell’Urbe. Ma dopo che il re si era rifiutato di firmare un ordine in tal senso, i comandi militari avevano dato disposizione di non contrastare i fascisti; e la finalità non era solo di evitare uno spargimento di sangue tra italiani - che avrebbe “avanzato” la manifestazione (armata) a nuovo capitolo della non dichiarata guerra civile “a pezzi” in atto in varie aree d’Italia dal ’19 con vittime, violenze e distruzioni; era di favorire i fascisti. Infatti pochi giorni dopo, dimessosi il governo Facta, coi fascisti stanziati nella capitale il re Vittorio Emanuele III conferiva l’incarico di formare il nuovo governo a Mussolini, già all’epoca incontrastato leader delle camicie nere. Così si consegnavano alla loro fine le istituzioni veteroparlamentari d’Italia, lacerate al loro interno, sfibrate da scandali, dimostratesi incapaci di governare la crisi economica del dopoguerra e il contrasto tra socialisti, liberali, fascisti, comunisti e altre formazioni partitiche o non partitiche: senza reagire a un nuovo sistema che dapprima avrebbe completato il loro svuotamento di rappresentanza, poi le avrebbe rese meramente rituali. Nasceva con la marcia su Roma il futuro regime, antesignano in Europa della presa di potere da parte di forze germinate fuori delle aule parlamentari, fuori dei palazzi, fuori delle istituzioni e che si erano fatte conoscere per una lunga serie di violenze e intimidazioni a collettività, soprattutto “rosse”, estranee al vertice dello Stato. Alla domanda se Vittorio Emanuele III guardasse con favore a un governo guidato da un nuovo uomo forte che tranquillizzasse la corona dalle minacce d’instabilità emerse durante la lunga fase giolittiana e nittiana, sino alle evanescenze dei governi Facta nel ‘22, bisogna rispondere di sì, considerando anche come Mussolini di continuo rassicurasse tutti, circa l’insediamento in forme parlamentari del suo governo; né in tale ottica bisogna temere di porsi la domanda se, oltre al re, se ne sentissero rassicurati gli stessi esponenti del sino ad allora dominante pensiero liberale (il nome più autorevole: Benedetto Croce) che al fascismo avrebbe dovuto essere teoricamente antitetico: nessuno nel ’22 prevedeva una crisi del parlamentarismo, bensì un rafforzamento, un’auspicata ripresa di reali poteri del nuovo governo.

Benedetto Croce fotografato da Mario Nunes Vais

Benedetto Croce fotografato da Mario Nunes Vais - WikiCommons

La storia del XX secolo avrebbe fatto conoscere altri scenari. Quale sottovalutazione, dunque, anche nelle menti più illuminate, della straordinaria, eversiva modernità del fascismo nel ‘22. Quale cecità nel prevedere di strumentalizzarlo, di usarlo come uno stadio attraverso il quale bisognava passare per rinsaldare la propria sella. E non si trattò solo di cecità prospettica, circa la carica totalizzate del fascismo stesso, bensì anche retrospettiva, se solo si fosse considerata la fragilità del liberalismo nella storia d’Italia e nel suo presente. La prova viene da uno dei più famosi giudizi sul fascismo espressi dopo la fine della seconda guerra mondiale, quindi a gran distanza di tempo dalla marcia su Roma e dopo il definitivo crollo del regime. È l’inquietante parallelo con gli “Hyksos” fatto da Croce, destinato a far discutere ancor oggi, e di fronte a cui i seguaci del filosofo si trovano in imbarazzo per il non emendato errore, o a esser generosi il non emendato anacronismo, risonante in esso. Infatti l’illustre pensatore abruzzese (al tempo icona della cultura italiana nel mondo), non solo non prese posizione circa la marcia su Roma e ciò che ne nacque, ma per due anni aderì a precisi provvedimenti legislativi del governo Mussolini, fino al 1925 quando ne divenne un netto oppositore. Cos’è dunque il parallelo con gli “Hyksos”, misteriosa popolazione che conquistò il regno dei faraoni e vi si insediò per quasi duecento anni (tra il 1700 e il 1500 avanti Cristo) per poi scomparire dalla storia? È l’assimilazione, fatta da Croce, del fascismo alla loro invasione «con la sola felice differenza – scrisse – che la barbarie degli Hyksos durò in Egitto oltre dugento anni, e la goffa truculenza e tumulenza fascistica si è esaurita in poco più di un ventennio» con un «sistema banditesco che resse a un tratto l’Italia del Ventesimo secolo». Questo scriveva Croce dopo la seconda guerra mondiale e non vi è chi non scuota il capo nel leggere come la (inesistente) democrazia liberale, patria ideale del filosofo, venga qui presentata come capace di scrollarsi di dosso in soli 20 anni gli Hyksos del XX secolo; nonché il ventennio storicizzato quale transitorio stadio, parentesi chiusa di una tradizione italiana estranea all’autoritarismo. C’è da domandarsi quale concezione avesse Croce dell’autoritarismo e della rappresentatività del liberalismo di cui era esponente; forse va un po’ anch’essa storicizzata. Il contesto in cui si esprimeva era postottocentesco; il regno d’Italia, anche prima della orrenda, «inutile strage» del 1915-18, aveva messo in luce le voragini in cui precipitava l’illusione di una reale governance del Paese attraverso il sistema parlamentare: l’irrisolta “questione meridionale” presentava un paese spaccato in due, non a democrazia bensì a civiltà incompiuta, quel minimo di civiltà, almeno, che sollevasse un po’ il sud dalle secolari condizioni di arretratezza facendolo sentir parte di un nuovo Stato unitario; mentre il più evoluto nord era attraversato da fermenti di recupero d’autogoverno secolarmente radicati anche nei ceti popolari e che si esprimevano attraverso l’esperienza delle leghe, delle cooperative e di altre strutture autonome dal governo centrale; né poteva nel ‘22 l’evoluto Nord essere indifferente a quanto avveniva in Russia, cui molte realtà di territorio guardavano come guida sulla via del socialismo, totalmente ignare degli orrori che decenni dopo si sarebbero visti del socialismo reale. Forse nel fascismo si vide un ipotetico, e non più rinviabile, tentativo di risolvere parte almeno di ciò. E forse Croce nel ‘22 non capì i suoi tempi. Fa tremare i polsi scriverlo per il re del pensiero storicizzante, per l’intellettuale che insegnava al mondo il suo divenire. Di certo tre anni dopo il 1922 Croce era divenuto un intoccabile oppositore del fascismo; ora aveva ben chiaro cosa lui stesso avesse appoggiato. Un quarto di secolo dopo risuona dunque quale punto irrisolto, nel Croce antifascista, l’infelice parallelo con gli Hyksos; forse fu un po’ compiaciuto, l’anziano filosofo, nel formularlo; probabilmente era tra i pochi a conoscere l’esistenza degli Hyksos. Ma oggi provoca perplessità la leggerezza che percorre le parole «goffa truculenza e tumulenza» con le quali il fascismo viene sbeffeggiato e liquidato quale parentesi chiusa. Vengono dimenticate le conseguenze che innescò in mezz’Europa, su materiali di combustione, carsici o emersi, che erano solo in attesa di una scintilla per divampare. La marcia su Roma del 1922 e il successivo istaurarsi del regime furono il primo punto di emersione di forze profonde e meno transeunti – nella brillante, suggestiva metafora - degli Hyksos di 3.700 anni fa, forze sulle quali gli stessi devoti di don Benedetto farebbero bene a riaccendere lumi d’indagine.

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