giovedì 4 agosto 2016
Facce da Olimpiadi. Il mondo in cinque anelli
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Una vita per arrivarci, un soffio per perderle. Chiedi a quelli che la scalano cosa è l’Olimpiade. Una storia d’amore in cui ci si vede solo una volta ogni quattro anni. Fedeltà pura. Confronto, contatto, esame crudele. Se sbagli, non puoi riparare subito. Se la accarezzi, diventa una droga. Una volta provata, la rivuoi. Chiedi a Giovanni Pellielo, 46 anni, il nonno azzurro, l’atleta italiano più anziano che si è qualificato per Rio 2016. Un fenomeno di diversità, e non solo perché questa Olimpiade per lui sarà la settima consecutiva. Tiro a volo la sua specialità. Prima di compiere 18 anni nemmeno sapeva cosa fosse un fucile, a 22 era già ai Giochi di Barcellona. Potrebbe averne la nausea, ha vinto 3 medaglie olimpiche e 10 titoli mondiali. «Invece no - spiega - io continuo proprio perché non ho obiettivi da raggiungere. Ho solo bisogno di interiorità, quel fuoco che non sai da dove arrivi, che è scritto nel Dna e che continua a spingerti nonostante tutto…». Pellielo è un uomo pieno di ideali. Innamorato del suo sport ma anche della religione, che - assicura - lo guida e gli regala serenità.

Giovanni Pellielo, decano azzurro del tiro a volo

Lui come tanti altri. Si guardano dentro e trovano la forza. Perché sanno che non ci si abitua alle Olimpiadi. Quando arrivano, devi esserci. Non importa dove. Non conta come, né quando. Interessa solo perché. Chiedi a Yusra Mardini, 18 anni, occhi freschi e profondi sopra a una faccina da bambola. Scappò dalla Siria poco più di un anno fa: era la migliore nuotatrice del suo Paese, ma non bastava per restare. Arrivata via terra in Turchia è salita su un barcone di disperati in fuga, destinazione Lesbo. Il barcone è rimasto in panne. A riva ci è arrivata nuotando, trascinandosi dietro la sorella. Da lì in Germania, dove ha ottenuto asilo politico, ha ripreso ad allenarsi e si è qualificata per Rio. Gareggerà sotto la bandiera dei rifugiati, la squadra senza terra. Nuoterà ancora Yusra. Per vivere, più che per vincere. Come ha sempre fatto. Già. c’è sempre un motivo. E non è mai lo stesso. Partenze e arrivi, colori. Quelli dei cerchi, anelli eterni da afferrare, tondi, perfetti per dondolarsi sul mondo. E dire a tutti: eccomi, sono qui, guardatemi. Ce l’ho fatta un’altra volta. Cosa sono i Giochi chiedetelo ad Aldo Montano, 4 medaglie tra cui una d’oro ad Atene 2004, figlio e nipote d’arte. Dal nonno a lui, 80 anni di Olimpiadi in famiglia. Rio è la sua quarta: «L’Olimpiade devi sentirla: ti prepari, fai tutto al meglio, poi sai che tutto dipende da come ti svegli quel giorno: fai colazione, arrivi alla gara, e senti subito se c’è la magia che ti potrebbe incendiare. Ma dopo 25 anni di carriera ho capito che non puoi farla rivivere a comando. Viene in automatico. E se non viene, hai perso quattro anni di vita».

Aldo Montano, nipote d'arte, medaglia d'oro nella scherma ad Atene 2004 Miracolo, sogno, rinascita, contatto con la fatica. Puoi spremerli i Giochi, tirargli fuori l’anima, offenderli, pensare che non lascino effetti collaterali, congelarli nel ricordo di una sola, episodica, straordinaria impresa. Ma poi ritornano. A ricordarti cos’è lo sport, quello degli uomini e delle donne vere, quello che non ha colore perché li contiene tutti, che non ha età perché l’Olimpiade non regala l’immortalità, ma l’illusione di raggiungerla quella sì. Chiedere per conferma a Usain Bolt, l’uomo più veloce del mondo. Imprendibile, anche in presunzione. Oro a Londra 2012 nei 100, 200 e staffetta 4x100. Stessa tripletta a Pechino 2008, imbattibile ai Giochi da otto anni in tutte le gare a cui ha partecipato. Sembra facile, sembra. «Molti mi vedono in tv solo per i 10 secondi della gara. Ma io so cosa vuol dire arrivare al top, quanto lavoro c’è dietro - ha detto pochi giorni fa -. Questo può essere l’anno che mi renderà immortale. So di essere già una leggenda, ma quando mi ritirerò voglio che la gente si ricordi di me e che il mio nome resti tra i più grandi di sempre». Compirà 30 anni proprio il 21 di agosto, il giorno in cui i Giochi finiscono. «Vorrei farmi un regalo, magari ritoccare il record del mondo dei 200. Difficile, ma non impossibile…». Questa è l’Olimpiade, un primato da scalare, un incrocio da guardare negli occhi, la fatica dell’uomo per uscire dalla caverna, l’orgoglio della donna per non essere più schiava. Storie, trionfi. Ma anche infelicità. E a volte la colpa di sentirsi intrusi, spiati con sospetto. Rivolgersi, per conferma, a Mourad Laachraoui, fratello di Najim componente della cellula della strage di Bruxelles il 22 marzo scorso. Mourad non esplode, lui lotta: parteciperà alle Olimpiadi come rappresentante del Belgio per il taekwondo. A maggio ha vinto l’oro ai campionati Europei. La mattina del 22 marzo si trovava nel laboratorio della sua scuola, la Haute École Économique et Technique, poco lontano dall’aeroporto dove il fratello si è trasformato in un kamikaze contribuendo a far morire 32 persone e a ferirne decine. Mourad e Najim, cresciuti insieme nella stessa casa a Bruxelles, nel quartiere Schaerbeek, non si vedevano dal 2013 da quando Najim era partito per la Siria. E dallo stesso aeroporto dove il fratello e gli altri soldati del Daesh hanno fatto la mattanza, Mourad è partito per Rio. «È terribile quello che ha fatto, non perdonerò mai le persone che lo hanno portato a quel grado di follia. Mi manca come fratello. Ma non mi manca per quello che ha fatto». Sport, con drammi alle spalle. E anche assenze. Chiedere a Gianmarco Tamberi, record italiano nel salto in alto e infortunio nella stessa sera, a 20 giorni dai Giochi. Operato ai legamenti, addio a Rio e a una medaglia quasi sicura: «Svegliatemi da questo incubo, ridatemi il mio sogno, vi prego. Tutti questi anni solo per quella gara, tutti i sacrifici solo per quel giorno. Vorrei urlare che tornerò più forte di prima, ma ora riesco solo a piangere», è stata la sua reazione. Prima di rassegnarsi a guardare lontano, ai prossimi Giochi. Anche se Tokyo 2020 ora sembra lontana un secolo. Storie, persone, umanità. Qualcosa che dura un attimo lunghissimo. Solo un’Olimpiade regala tanto. Riempie, sazia fino alla prossima. Un viaggio senza illusioni, non vincono sempre i buoni e spesso non perdono i cattivi. Ma c’è tanta vita dentro, c’è un senso, una speranza più alta di un podio. Chi non ci crede, chieda a Nur Suryani Mohd Taibi. Cognome che sembra un codice fiscale, 33 anni, malese con l’hobby dei tiro a segno. A Rio non c’è. Semplicemente perché ai Giochi Asiatici di Nuova Dheli, dove poteva guadagnarsi la qualificazione, non c’è andata. Doveva partorire un mese dopo, il medico le ha sconsigliato il viaggio in aereo. Un vizio il suo. Bellissimo. Anche a Londra, quattro anni fa, arrivò incinta di 7 mesi. Gareggiò comunque, sussurrò al piccoletto che aveva nella pancia di stare fermo, almeno per il tempo in cui doveva prendere la mira. Lui non si mosse troppo. Lei sparò, arrivò 34esima, tornò a casa felice. Fino al prossimo figlio. Auguri. Questa è l’Olimpiade: per lei si spara e si nasce, difficilmente si muore. L’Olimpiade è un traguardo, la svolta dopo la quale cambia la vita. Chiedi a Simone Ruffini, marchigiano, 26 anni, occhialini e barbetta sottile. Uno di quelli che per sport ha scelto i lavori forzati. Nuoto in acque libere, lo chiamano, o nuoto di fondo. Un massacro comunque. A Rio i chilometri da sbracciare sono “solo” 10, ma lui è campione del mondo in carica dei 25. A Kazan giusto un anno fa, dopo aver tagliato il traguardo, fresco come un’acciuga è salito sul podio con un cartello di cartone in mano con scritto sopra: “Aurora, mi vuoi sposare?”. Rivolto a Aurora Ponselè, 24 anni, maratoneta dell’acqua lei pure. “Sposarci? Dopo i Giochi, certo. Sono quattro anni che aspettiamo: ne abbiamo fatti di chilometri nel frattempo. E davanti abbiamo una strada lunghissima…”, ha risposto raggiante al suo Simone. Perché ti aspetta l’Olimpiade, ti lascia davanti il meglio e il peggio del mondo, ti mette accanto i più bravi, ti obbliga a stare diritto, a dosare il fiato. Corri, salta, combatti. Cento corse non fanno una finale olimpica. Non c’è un’altra volta, la prossima passa tra quattro anni, se passa. E non tutti hanno la possibilità di giocare. Andiamo allora. Si comincia. Perde solo chi non c’è.

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