mercoledì 25 maggio 2022
Parla lo storico, ospite a Gorizia di èStoria: «L'evento di cento anni fa e Mussolini stesso furono sottovalutati da tutti, dal governo a Gramsci. Furono loro i primi complici del fascismo»
Benito Mussolini, durante la marcia su Roma, con alcuni dei quadriumviri: da sinistra Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi.

Benito Mussolini, durante la marcia su Roma, con alcuni dei quadriumviri: da sinistra Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi. - WikiCommons

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«Maestà, la presunta marcia su Roma è tramontata». Con questo telegramma al re nell’ottobre di un secolo fa il presidente del consiglio Luigi Facta liquidava, come fosse fallito o addirittura mai avvenuto, l’evento che avrebbe dato inizio alla demolizione delle istituzioni democratiche.

Se tanta cecità lascia interdetti, il guaio vero è che Facta non fu il solo miope, anzi. All’indomani dell’adunata dei fascisti a Napoli (24 ottobre 1922), prova generale di quanto avverrà poche ore dopo a Roma, il foglio comunista L’Ordine Nuovo fondato da Gramsci ben lungi dall’allarmarsi minimizzava e sbeffeggiava: “Dopo la carnevalata napoletana, avvenuta nel paese di Pulcinella, è ormai evidente che il fascismo è in via di disgregazione”. “Tanto è solo una lite tra borghesi, a noi non interessa”, confermavano i capi del socialismo massimalista e del comunismo partendo per Mosca verso la III Internazionale.

E la miopia non si diradò nemmeno due anni dopo, con l’assassinio di Giacomo Matteotti, se Gramsci ancora diceva al Partito Comunista che “il fascismo è un cadavere che aspetta solo di essere seppellito” (agosto 1924), e Filippo Turati rassicurava la compagna Anna Kuliscioff, “tranquilla, ormai il fascismo è un impiccato che si mantiene per la stessa corda che lo impicca”…

«Insomma, i primi complici della Marcia su Roma e delle tragedie che ne seguirono furono gli antifascisti», spiega Emilio Gentile, tra i più acuti storici del fascismo e professore emerito alla Sapienza di Roma, presente il 27 maggio al Festival goriziano èStoria con una lectio magistralis dedicata ai 100 anni dall’evento che inaugurò il Ventennio. «Il re Vittorio Emanuele III non fu più incosciente di un’intera classe politica che, deridendo e gettando in farsa ciò che farsa non era, aprì la porta al Fascismo. Tutti convinti che il movimento armato si sarebbe esaurito da solo».
Eppure ancora oggi spesso vediamo la Marcia su Roma come un’armata Brancaleone arrivata in treno da tutta Italia, personaggi da commedia più che da colpo di Stato.
«Fu tutt’altro che una scampagnata, sono stati tre giorni di assassinii e ferimenti. L’unico libro popolare sul tema, il romanzo di Emilio Lussu Marcia su Roma e dintorni, purtroppo ne fece una caricatura, e lo stesso antifascista Gaetano Salvemini la definì “un’opera buffa”. Ma un’opera buffa non crea un movimento capace di provocare la più grave tragedia mondiale, con l’influenza che ha avuto sul nazismo in Germania e su tanti movimenti guerrafondai tra le due guerre. Non fu una marcia su Roma ma una marcia sul potere, che però fu a loro ceduto. Si dice che fu un compromesso ma così non è, perché in un compromesso avviene uno scambio, e Mussolini in cambio del potere cosa diede? La conquista del potere definitivo dopo tre anni e l’eliminazione del regime liberale… Il dramma è che quando non si ha il coraggio di capire in cosa si sta sbagliando si ridicolizza l’avversario che vince».
Dunque già 100 anni fa si sottovalutò quanto stava accadendo.
«Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922 il generale Pugliese chiese disperatamente ordini al capo della polizia, il quale aveva ricevuto disposizioni dal primo ministro Facta di andare tutti a dormire, tanto fino al giorno successivo non sarebbe arrivato nessuno. Poche ore dopo lo stesso Facta venne svegliato in hotel, alle 3 di notte, “eccellenza, i fascisti marciano”, e lui si disse “assai stupito e scosso dalla notizia inattesissima”. A seguirla ora per ora, la Marcia su Roma è il risultato di incoscienza, incompetenza e superficialità da parte di tutti. Pensi solo che nel maggio del 1923 un antifascista come Salvemini, a quel punto già costretto all’estero, si augurava che Mussolini non cadesse presto, ritenendo “preferibile Mussolini” a Giolitti, Bonomi, Orlando “e genii simili”, perché “Mussolini si liquida da sé, è un clown”».
D’altra parte incredibilmente ancora oggi dura il dibattito se il Fascismo sia stato o no totalitario.
«A definirlo totalitario già nel 1923 (quando ancora non c’era il partito unico e nessuno poteva prevedere che cosa sarebbe successo) furono don Luigi Sturzo e Giovanni Amendola. Se un partito milizia conquista il potere e lo usa per eliminare tutti gli altri partiti, chiaramente è una dittatura di tipo nuovo: Sturzo e Amendola dissero “questo è un metodo totalitario”, inventarono la parola. Ma ancora oggi qualcuno lo nega, adducendo il pretesto che anche la Chiesa era nel sistema. Allora perché nel 1939, alla vigilia del decennale della conciliazione, Pio XI aveva pronta un’enciclica di condanna del “totalitarismo fascista”? Non si condanna qualcosa che non c’è. Se Pio XI non fosse morto il 10 febbraio del ’39, probabilmente avrebbe proclamato la “sconciliazione”, perché condannava il regime fascista nella sua integrità. Era una Chiesa che pensava che quel tipo di regime stava inquinando anche il clero. E infatti nel 1935 monsignor Tardini, esasperato dal consenso che parte della Chiesa dava alla guerra d’Etiopia, denunciò come “il culto del Duce prevale oggi sull’obbedienza al Papa”. Pio XII nel 1939 lasciò nel cassetto l’enciclica del predecessore, per il clima di grande paura: insomma, la Chiesa soffrì terribilmente di questa situazione, con alti prelati che descrissero il periodo come “peggiore delle persecuzioni dei primi cristiani”… Ridurre tutto questo a una “sagra di utili idioti” o alle posture del Duce e alle pagliacciate di Starace significa non rendersi conto che gli italiani vissero, seppure accecati dall’entusiasmo, un’epoca di tragedia. La guerra civile squadrista causò lutti in tutta Italia, e nei giorni della marcia in alcune località l’esercito nazionale fece il suo dovere contro gli squadristi provocando alcuni morti».
Lutti provocati dagli squadristi contro l’esercito, ma anche contro i civili che opponevano una qualsiasi resistenza, gettati dalle finestre o fucilati…
«Era da due anni che lo squadrismo imperversava armato. Si può dire che la marcia fascista ebbe inizio a Bologna con la strage di Palazzo d’Accursio il 21 novembre 1920 (le camicie nere spararono sulla folla riunita in piazza Maggiore per l’insediamento della nuova giunta comunale socialista, che aveva vinto le elezioni, ndr) e proseguì con un’escalation che non si volle vedere. Nel 1919 i fascisti in Italia sono 800, alla fine del 1920 sono 20mila, nel 1921 quando viene fondato il partito sono 400mila, dopo la Marcia su Roma 800mila. In mezzo c’era stato un biennio di guerra sanguinosa contro tutti i partiti avversari, prima i socialisti, poi i popolari e infine i liberali come Amendola e Gobetti, che certo non erano bolscevichi, o come don Minzoni, un decorato della Grande Guerra. Ma, come ho detto, da Facta a Gramsci a Salvemini, tutti preferirono ridere e non crederci, e questa è la forma più grave di complicità. Che non avvenne solo durante il Ventennio ma anche nei 70 anni successivi, quando nell’immaginario la Marcia su Roma è rimasta quella del film di Dino Risi con Gassman e Tognazzi. Essere incapaci di capire le tragedie e mutarle in farsa è il modo peggiore per essere seri».
Negare il pericolo e deridere l’avversario (che sia la peste o un esercito) è un antico vizio mortale. Quando Facta, presa coscienza che la Marcia su Roma non era affatto presunta, propose al re lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele III gli rispose che “la guerra civile è da sanguinari o da scemi” e preferì la non reazione. Sarebbe stato effettivamente un bagno di sangue?
«Questo non lo possiamo sapere. Però dal 1920 il bagno di sangue era praticato quotidianamente dalle camicie nere, e ci fu un solo caso in cui i Carabinieri reagirono facendo scappare i fascisti, i quali poi furono linciati dai contadini: a Sarzana nel luglio 1921».
Da storico, come definisce la Marcia su Roma? Fu un golpe, un’eversione, una guerra civile?
«Fu la combinazione di due manovre opposte ma complementari: l’insurrezione armata degli squadristi nelle province del centro Italia e della Valle Padana, e le trattative che intanto Mussolini portava avanti separatamente con Giolitti, Salandra e lo stesso Facta. Insomma tra il 27 e il 29 ottobre 1922 era in atto una duplice azione contro lo Stato: da una parte le squadre armate che occuparono le prefetture, le questure, le stazioni, dall’altra le trattative segrete con cui Mussolini voleva ottenere ministeri chiave per alcuni esponenti fascisti, ma non intendeva diventare presidente del Consiglio. Questo invece fu deciso la sera del 27 ottobre da Michele Bianchi, segretario del Partito nazionale fascista, che spinse un Mussolini esitante a imporre il suo nome. Vinsero la loro marcia sul potere contro le istituzioni democratiche grazie a questa combinazione originale: ricattare con la minaccia delle armi, mentre si trattava».
Dunque Mussolini subì una sorta di forzatura?
«Non era nei suoi piani andare personalmente a guidare il governo, fu messo davanti al fatto compiuto da Bianchi. Contemporaneamente la sera del 27 ottobre 1922 gli squadristi cominciarono ad occupare città del Nord e della Toscana e la Marcia si compì a Roma solo quando Mussolini ebbe l’incarico dal re di formare il nuovo governo: paradossalmente la Marcia su Roma non è il 28 ottobre, data scelta dal Fascismo per le celebrazioni, ma il 30, quando Mussolini ottenne formalmente l’incarico e le porte della Capitale si aprirono pacificamente all’ingresso di alcune migliaia di camicie nere che erano state fermate dalla forza pubblica a 80 chilometri da Roma».
Mussolini arrivò da Milano la mattina del 30 in vagone letto…
«Lei sa come andò Lenin a conquistare il potere al Palazzo d’Inverno? In tram. E nessuno si sogna di sminuire per questo la portata di ciò che avvenne. Siccome era ricercato dalla polizia zarista, indossava pure la parrucca, si era sbarbato e al posto di blocco si finse ubriaco. Tra l’altro l’adesivo della parrucca non teneva, così si fasciò la testa come avesse mal di denti. Doveva a tutti i costi entrare al Palazzo d’Inverno, perché Trotskij aveva già iniziato la rivoluzione, ma poiché era travestito e aveva dimenticato il documento bolscevico non lo lasciavano passare. Lo sa come fece? Essendo alto un metro e 65 sgusciò fra i giganti delle guardie rosse. Lenin macchietta, quindi? I rivoluzionari moderni viaggiano in treno e in tram, non alla testa di truppe d’assalto».
Sottovalutare i personaggi e le loro minacce provoca immense tragedie. Un discorso ancora molto attuale.
«Non è vero che la storia insegna. La storia non insegna niente perché l’uomo è imprevedibile e le situazioni non si ripetono mai, prendono un corso diverso a seconda di mille variabili anche banali: qualsiasi grande evento storico avrebbe potuto virare se alcuni uomini avessero deciso in maniera diversa da come decisero, dunque è impossibile tracciare analogie. Per essere capita la realtà esige di essere osservata senza riferimenti al passato: non si capisce Putin dicendo che è Hitler, è un fatto nuovo, e purtroppo razionale, che rientra nella sua ambizione e forse nella paura di perdere il potere (quando i dittatori hanno gravi problemi interni li risolvono aggredendo l’esterno). La storia è una continua follia creativa. E lo storico è un sereno pessimista: dopo quello che ha imparato non si lascia raccontare favole, ma prova una gioia immensa quando sbaglia previsione».

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