mercoledì 3 dicembre 2008
Documenti inediti dello statista, scoperti nell’Archivio centrale dello Stato, offrono lo spunto per analisi e nuove interpretazioni del politico pugliese: anche quale vero continuatore di De Gasperi. Un convegno alla Luiss.
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L'Università Luiss-«Guido Carli», espressione del mondo industriale italiano, dedicherà da domani un ricco convegno di studi in due giornate alla figura di «Aldo Moro nella politica italiana». Il convegno è in realtà la seconda tappa di un percorso di ricerca avviatosi nel giugno scorso a Lecce, grazie all'Università del Salento, con analogo convegno su «Aldo Moro e le relazioni internazionali dell'Italia». La recente disponibilità delle carte dello statista, custodite all'Archivio Centrale dello Stato, ha consentito la predisposizione di una serie di relazioni che dovrebbero aggiungere conoscenza e dar luogo a nuove ipotesi e interpretazioni sulla figura di Moro, rilanciando attenzione sulla sua identità e il suo spessore politico. In particolare la sessione dedicata a «Moro e i partiti politici», nella prospettiva complementare dei rapporti e giudizi di Moro sui partiti e di ciascuno di questi sul politico democristiano, potrà servire ad allargare il giudizio ed a verificare se e quanto la lezione di Aldo Moro sia riuscita a trapassare certi confini di parte e ad accrescere una storia comune, nazionale. Ciò che è ormai un dato indiscusso per un padre della Repubblica come Alcide De Gasperi, la cui figura e statura sono ormai nettamente stagliate, potrebbe avverarsi anche per Aldo Moro, che in qualche misura di De Gasperi è stato, sia pur in epoche diverse e non senza contrasti, continuatore. Qualcosa del genere può esser detto anche a proposito dell'altro protagonista della centralità Dc dopo De Gasperi: Amintore Fanfani, di cui ricorre il centenario della nascita e che verrà presto ricordato a Milano nella «sua» Università Cattolica. Ma le differenze tra Moro e Fanfani s'impongono, altrettanto e forse più delle loro complementarietà, che pur furono molte e dovute soprattutto alla capacità di tessitura e persuasione di Moro. Uomo di strategia e di sistema Moro, uomo di energia programmatica e operativa Fanfani. Due versioni e applicazioni diverse (più lineare ed evolutiva, pur nell'apparente discontinuità a partire dal '68, quella di Moro, più volontarista e polemica con gli alleati e gli avversari quella di Fanfani), del principio degasperiano secondo cui si doveva mantenere la Dc quale «partito di centro che si muove verso sinistra». Laddove tale principio guida all'azione doveva tener sempre conto che la Dc, forza centrale del sistema politico, era innanzitutto una forza popolare e interclassista, contenente essa stessa una «sinistra sociale» al suo interno, mentre il resto del mondo del lavoro era rappresentato da forze politiche allora «fuori del sistema», che si dovevano sì fronteggiare, ma le cui ragioni non andavano respinte bensì interpretate ed incanalate nella regola democratica. Il partito democristiano ha sempre scontato un pregiudizio negativo da parte non solo dei suoi antagonisti, ma dei suoi stessi alleati: dai liberali che si sentivano il compito di guidare essi l'Italia in nome della «borghesia produttiva», ai repubblicani alla La Malfa, che si richiamavano al risorgimentalismo antimoderato, ai socialisti di varia gradazione che a lungo non si renderanno conto che libertà e giustizia riformatrice non erano principi fra loro opposti. La Dc era cioè vista dall'esterno come clericalismo di massa più che come partito democratico a diffuso consenso. Leggendo Nenni, uomo politico cui a lungo andò l'attenzione personale prima di De Gasperi e poi di Moro, ci si rende conto come egli abbia visto a lungo l'azione dei socialisti al governo come «breccia» contro la cittadella della conservazione, e come azione scompaginante la Dc. Aldo Moro riuscirà a conquistare la fiducia di Nenni mostrando che la Dc, o almeno quella parte da lui rappresentata, non temeva questa concorrenzialità (e presunzione di superiorità) socialista, al punto di render possibile l'elezione di Saragat alla presidenza della Repubblica e di favorire l'unificazione socialista. Senza eccedere in schematismi, si può ben richiamare la tendenza «inclusiva» del paziente Moro, con riguardo sia alle minoranze interne alla Dc, sia alle forze alleate di governo, e quella più «identitaria», se non «escludente», dell'impaziente Fanfani. Per Moro la Dc non doveva frantumarsi né a destra né a sinistra (e di qui la sua attenzione a Scelba nella prima fase del centrosinistra, come a Donat Cattin tra '68 e «autunno caldo»). E quando, tra '68 e '73, ci sarà la tentazione di un rinserramento della Dc in forme moderato-garantiste (la cosiddetta teoria della «centralità», presupponente l'autosufficienza del partito, sostenuta in particolare da Taviani, da una parte dei dorotei, dai fanfaniani e dai rampanti del «Patto di San Ginesio»), Moro passerà all'opposizione nel partito. Ma da lì in pochi anni, pur da posizioni di estrema debolezza nella Dc, egli riuscirà a ribaltare il quadro generale, coinvolgendo di nuovo i riottosi socialisti al governo, e persuadendo volta a volta i suoi colleghi di partito, da Andreotti allo stesso Fanfani, che la sua era la rotta giusta. Ciò valeva per la Dc come per il sistema politico italiano, che non poteva permettersi allora, nel mondo duale che stentava ad uscire dalla guerra fredda, né il muro contro muro, né l'alternanza di governo. Moro aveva capito, a cavallo del '68, che quelle poste in campo dalle nuove generazioni non erano solo utopie, ma speranze da rendere concrete. In quella temperie maturerà anche la sua «strategia dell'attenzione» verso un Pci da invigilare e far maturare per gradi. Ed anche qui Moro si dimostrerà lo statista che era: custode della vita nazionale nelle sue articolazioni e prospettive, più che uomo di parte.
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