martedì 14 giugno 2016
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L’ultimo mio incontro diretto con il cardinal Giacomo Biffi risale al giorno di novembre 2010 nel quale fui creato anch’io cardinale da Benedetto XVI. In quel breve dialogo fu lui a farmi rievocare un ricordo comune: esso era legato a una piccola e vecchia religiosa delle Mantellate dal nome manzoniano, suor Prassede. Il suo viso rugoso, il linguaggio sbrigativo, il comportamento schivo nascondevano uno spirito libero e critico. Anni prima ci eravamo ritrovati tutti e tre insieme a cena, nel Collegio milanese ove la suora risiedeva, per festeggiare un suo compleanno: l’allora don Giacomo era stato invitato perché prevosto della vicina parrocchia di Sant’Andrea e confessore da tempo della religiosa, io perché ero stato un bambino della scuola materna del paesino di mia madre dal curioso nome di Santa Maria Hoè, ove suor Prassede era stata la mia educatrice. In quella sera, salutandoci alla fine senza molte cerimonie, la suora annunciò in modo asseverativo che saremmo diventati entrambi cardinali. La cosa aveva già allora un’alta probabilità per una figura ecclesiale già molto nota e un autore popolare come don Biffi, che di là a poco sarebbe infatti diventato vescovo ausiliare dell’arcivescovo di Milano, cardinal Giovanni Colombo, e successivamente arcivescovo di Bologna e quindi cardinale. Molto improbabile allora era, invece, il mio approdo a quella meta. Ebbene, in quell’incontro affettuoso del 2010 il cardinal Biffi aveva voluto rievocare quella sorta di profezia della vecchia suora che, come l’ottantaquattrenne Anna evangelica, «non si allontanava mai dal tempio servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere». A unirci in quell’occasione era stata una realtà cara al cardinale, la semplicità che si alimenta di essenzialità e di libertà. Naturalmente sarebbero stati molteplici gli altri crocevia che ci avrebbero fatto incontrare, ma da questi sprazzi della memoria, che possono essere soggettivi e personali e quindi irrilevanti per gli altri, emergono però alcuni lineamenti del cardinale. Tanti sarebbero i percorsi ulteriori che mi hanno condotto a incrociare indirettamente, soprattutto attraverso le letture dei suoi testi, il cardinal Biffi. Pur nella diversità delle sensibilità, era difficile per me uscire indenne dalle sue analisi sempre spoglie di fronzoli secondari, prive di genericità concordistiche, pronte a inoltrarsi in terreni apparentemente minati, come la questione islamica o il nesso Chiesa-Stato o il contrappunto tra diritto ed etica e così via. Sospetto che il cardinale non abbia particolare consonanza simpatetica con Pascal, ma vorrei concludere questa semplificata e frammentaria attestazione di memorie personali con un paio di battute dei Pensieri che vorrei applicare alla figura di Biffi nella sua ricerca intellettuale e pastorale. Da un lato, la celebrazione del rigore nel pensare perché «la pensée fait la grandeur de l’homme». D’altro lato, la necessità del “pensare bene” (diverso dall’atteggiamento del “benpensante” o del semplice politically correct) come principio e guida di un vivere bene secondo morale: «Travailler à bien penser: voilà le principe de la morale». 
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