giovedì 4 settembre 2014
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​Alla fine in molti si fermano per farsi firmare una copia del libro o per scambiare ancora due parole con i relatori. Ordinaria amministrazione, qui a Mantova. Non fosse per il tema della conversazione che si è appena conclusa: "Una morte umana". Promosso dall’Istituto Oncologico Mantovano e coraggiosamente voluto dagli organizzatori di Festivaletteratura, il dialogo tra la psicoterapeuta francese Marie de Hennezel e il giornalista Francesco Abate è una delle sorprese di questa edizione 2014. Per l’intensità delle testimonianze, per la schiettezza delle argomentazioni, per la volontà di abbattere la cortina di silenzio che circonda il discorso sulla morte nella nostra società. Lui racconta la sua storia di trapiantato, lei ripercorre le tappe di un impegno ormai trentennale per la diffusione delle cure palliative. «Perché è un dato di fatto - ripete ad "Avvenire" Marie de Hennezel -: meno sono sostenute le cure palliative, più si invoca il ricorso all’eutanasia, con tutte le derive che questa comporta. Compresa l’eutanasia infantile approvata in Belgio».Ancora inedito in Italia (dove invece è ormai considerato un classico La morte amica, in catalogo da Rizzoli, e dove Lindau ha appena ristampato Morire a occhi aperti), l’ultimo libro di questa intellettuale quieta e risoluta è appunto un atto d’accusa contro l’eutanasia. Si intitola Nous voulons tous mourir dans la dignité ("Tutti noi vogliamo morire con dignità", Laffont) e prende alla lettera un termine che è sempre più spesso causa di equivoci, come accade proprio in questi giorni con le dichiarazioni del teologo Hans Küng a favore di eutanasia e suicidio assistito. «Si confonde la dignità con l’integrità del corpo oppure con l’autonomia - insiste Marie de Hennezel - e si dà per scontato che, con il venir meno di questi requisiti, non resti altra strada che quella di procurare o procurarsi la morte. Ma non è così».Che cos’è allora la dignità?«Solidarietà, in primo luogo. E disponibilità ad accogliere l’altro anche nella sua debolezze e fragilità, nella sua progressiva mancanza di autonomia. Vede, molte volte i pazienti terminali si convincono di essere inutili, mentre invece possono ancora svolgere un compito prezioso».Quale?«Permettere di prenderci cura della loro infermità, accompagnandoli in un percorso che non è mai prevedibile, intessuto com’è con la parte più profonda dell’uomo. Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente François Mitterrand. Nel 1994 i medici lo avevano dato per spacciato, ma lui visse ancora due anni. C’erano troppi progetti, troppe energie nella sua vita perché tutto si interrompesse bruscamente. Nella mia esperienza ho spesso notato come le persone che hanno il coraggio di compiere un cammino di consapevolezza, pensando ogni giorno alla morte che le attende, sono anche in grado di vivere gli ultimi giorni in serenità, con una leggerezza che rivela molto della nostra umanità».Il presidente Mitterrand era dichiaratamente contrario all’eutanasia.«Esatto. Una sua affermazione è rimasta celebre: "Non ho abolito la pena di morte per reintrodurla sotto altra forma", disse. Un concetto molto diverso da quello di "abolire la pena di vita" tristemente proclamato oggi in Francia dai sostenitori dell’eutanasia».Non le sembra che in questo caso, come in quello della maternità surrogata, ci sia una certa confusione anche all’interno della sinistra francese?«La gauche ha sempre avuto una connotazione umanistica, il punto è che l’umanesimo stesso è entrato in crisi. Non saprei dire con precisione perché, ma di sicuro a partire dagli anni Quaranta del Novecento il discorso sulla morte si è fatto sempre più vago, fino a trasformarsi nel tabù attuale. Forse le guerre mondiali, con le loro stragi, ci hanno indotto ad accantonare l’argomento, ma anche i progressi della scienza medica hanno contribuito a rendere incerti i confini. Niente di tutto questo, però, cancella il paradosso per cui di morte non si parla, nonostante la morte stessa sia l’unico elemento che accomuna tutti gli esseri umani. E nonostante il fatto, aggiungo, che ogni famiglia, presto o tardi, deve misurarsi con il dolore, con la sofferenza».E con l’invecchiamento.«Sì, questo è l’aspetto più delicato. A volte si ha l’impressione di assistere alla nascita di un nuovo razzismo, rivolto contro gli anziani. Vedo molta ipocrisia, in questo. Temo che non si voglia ammettere che, con il passare del tempo, l’allargamento della popolazione anziana finirà per costituire un problema, anche dal punto di vista economico. Per questo la società ha la tentazione di trovare un modo per sbarazzarsene».
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