giovedì 12 ottobre 2017
L’esordio sul set a 12 anni, l’amicizia con Aldo Fabrizi, l’incontro con i fratelli Avati, il ritorno dopo la malattia. L’attore si racconta in occasione del Festival Cinevasioni alla Dozza di Bologna
L'attore Carlo Delle Piane

L'attore Carlo Delle Piane

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Quando gli abbiamo letto il messaggio di Pupi Avati, il giorno prima di ricevere la “farfalla di ferro”, un premio alla carriera, al Festival Cinevasioni che si svolge nel carcere della Dozza, si è commosso come un bambino. «Carlo Delle Piane è stato il filo rosso di tutto il cinema italiano dal dopoguerra ad oggi... è una persona di una sensibilità estrema che merita il premio che oggi gli viene riconosciuto, ne avrebbe meritati molti di più, ma soprattutto avrebbe meritato quell’attenzione da parte dei miei colleghi che non ha ricevuto. Questo è un mio grandissimo rammarico perché ad esempio in America o in Francia avrebbe ottenuto più considerazione» ha scritto il regista. E il tenero Delle Piane (110 film di cui una quindicina sotto la direzione del cineasta bolognese), nonostante l’antica amicizia con Pupi un “regalo” così proprio non se l’aspettava. «Scusi, me lo può ripetere?» ci ha chiesto l’81enne attore con il solito tono lieve da irriducibile timido. Lui mette il vivavoce al telefono della camera d’hotel dov’è ospitato a Bologna e noi rileggiamo l’omaggio che gli ha rivolto il maestro. «Sentito, Anna, cosa dice di me Pupi?». Anna è la cantante Anna Crispino, moglie quarantunenne dell’artista romano, colei che il 9 gennaio 2015 gli prestò i primi soccorsi, salvandolo, dopo il malore neurologico che lo colpì nella sua casa della Balduina, un’emorragia cerebrale che lo costrinse in coma al Gemelli per una ventina di giorni. Ma nel frattempo Delle Piane si è ristabilito tornando anche sul set, qualche mese fa, per girare Chi salverà le rose? per la regia di Cesare Furesi, a fianco di un altro “grande vecchio” del cinema italiano, Lando Buzzanca. È uno dei film in proiezione nella rassegna organizzata nella casa circondariale di Dozza (fino a sabato, con 10 opere in concorso accompagnate da attori, autori e produttori e valutati da detenuti).

Com’è stato il suo ritorno sul grande schermo dopo il lungo stop dovuto alla malattia?

«Ho letto la sceneggiatura di Furesi e mi è piaciuta molto. Anzi, mi sono entusiasmato alla possibilità di interpretare di nuovo l’avvocato Giulio Santelia, anche se la storia è diversa dalle precedenti e lui è un po’ invecchiato. Ci ho messo del mio, come sempre».

L’avvocato che mangia solo patate lesse era il suo personaggio, dalle finissime sfumature psicologiche, protagonista di Regalo di Natale, quello che le ha fatto vincere la Coppa Volpi a Venezia nel 1986.

«Già, l’inquietante baro... Che si ripresentò 18 anni dopo nel sequel La rivincita di Natale....».

Abatantuono, Cavina, Haber... Grandi attori e grandi amici. Com’è stato, stavolta, lavorare con il suo coetaneo Buzzanca?

«Lui è bravo, ma tra noi poteva andare meglio... Il rapporto con lo scrittore e regista Furesi invece è stato ottimo, tanto che stiamo pensando a un altro film da realizzare insieme».

Lei cominciò a fare cinema nel 1948, a soli 12 anni, quasi per caso, e praticamente da allora non ha smesso più...

«Frequentavo le medie al Pio XI di Roma e gli assistenti del regista Duilio Coletti cercavano tra gli alunni i ragazzi da far recitare nel film Cuore. Feci un provino e mi scelsero per interpretare Garoffi. Mi divertii molto. La mattina a scuola e il pomeriggio la consueta partitella di calcio (proprio una pallonata in faccia ne deformò il naso, determinandone un’immagine facilmente riconoscibile sullo schermo, ndr) prima di entrare nei teatri di posa a Cinecittà. Dicevo tra me e me le battute ma non mi rendevo conto di quello che facevo, non capivo l’importanza del mestiere che stavo in- vece imparando. Era un gioco. Poi mi chiamò Léonide Moguy per un ruolo in Domani è troppo tardi prodotto dalla Cineriz. E in seguito fu un film dietro l’altro, quasi sempre commedie brillanti: ho recitato con Sordi, Totò, Gassman, Fabrizi, sono stato diretto da De Sica, Vadim, Steno, Monicelli, Polanski, Corbucci. Era un lavoro che mi piaceva, guadagnavo qualche soldino. Lasciai la scuola dopo il diploma di terza media e mi misi a frequentare assiduamente... i cinema d’essai e i cineclub di Roma».

Aveva un punto di riferimento come attore?

«Buster Keaton. Lo studiavo, volevo essere come lui. Ho sempre ammirato la sua essenzialità, l’asciuttezza della recitazione...».

Era un attore “minimalista”, maniacalmente attento ai dettagli, viso impassibile ma infinitamente espressivo. Uno che trattava la commedia come una cosa seria. Proprio come fa lei...

«Beh, grazie. Ho sempre pensato a lui sui set. Sa, io amo profondamente il cinema. Non il suo ambiente però...».

La sua è stata una carriera piena di soddisfazioni ma assai sofferta.

«Non sono stato sempre apprezzato da colleghi e registi per quello che valevo realmente. L’unico vero amico che ho avuto è stato Aldo Fabrizi. Ma anche lui non era molto amato dai colleghi perché diceva sempre quello che pensava e non scendeva mai a compromessi. Ho fatto parte del cast, come co-protagonista, del suo La famiglia Passaguai e poi c’è stata la bellissima parentesi teatrale di Rugantino di Garinei e Giovannini, nell’edizione del 1962, siamo andati in giro per il mondo: io ero “er Bojetto”, figlio di Mastro Titta, il grande Aldo. Mi voleva bene».

E Alberto Sordi? Con lui ha recitato in Mamma mia, che impressione! e nel mitico Un americano a Roma, dove lei faceva Romoletto Pellacchioni...

«Grande professionista, Sordi. Ci siamo rispettati a vicenda. Era divertente lavorare con lui. Ma non siamo mai diventati amici».

C’è stato un periodo in cui lei ha rischiato di rimanere imprigionato in un cliché: quello del caratterista “brutto ma simpatico”, del romanesco Pecorì... il figlio di Fabrizi nella famiglia Passaguai...Come ha fatto a uscirne?

«Ho deciso di darci un taglio... Rifiutando ruoli per una decina d’anni, cercando a un certo punto solo proposte di qualità. Ho rischiato di fare la fame, insomma. Finché...»

Finché non è arrivato Pupi Avati che ne ha riconosciuto la caratura di attore anche drammatico... Come successe?

«Mi avvicinò il produttore Antonio Avati, il fratello di Pupi, che stava cercando attori per Tutti defunti tranne i morti.... Prima presero Gianni Cavina e poi me: furono colpiti. E così cominciò un lunghissimo sodalizio. C’è sempre stato un grande rispetto tra me e il maestro: lui ha capito che io potevo dare molto al cinema e mi lasciava abbastanza libero di inventare i personaggi che lui aveva delineato».

E la sua vita privata? Lei non ha figli, le pesa questa condizione di “non-paternità”?

«Cerco di esercitarla come posso. Da dieci anni, tramite la Caritas di Parma, io e mia moglie abbiamo adottato a distanza tre femminucce che vivono in Etiopia, Colombia e Brasile. Faccio i bonifici, loro mi mandano le foto, le sosterrò fino alla fine degli studi. Una quarta, del Bangladesh, ormai si è sposata e non ha più bisogno del mio aiuto. Ma porto anche lei sempre nel cuore».

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