venerdì 2 novembre 2018
Alla Fondazione Ferrero di Alba una rassegna con le opere del Museo Boijmans Van Beuningen dove emerge come Duchamp sia, pur non allineato a questi movimenti, il loro segreto ispiratore
Man Ray, «Le Témoin» (1941)

Man Ray, «Le Témoin» (1941)

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È piuttosto frequente che le mostre nel cui titolo si parla di “capolavori da X”, dove X sta per un museo importante, siano piuttosto deludenti. Si tratta di mostre prive di autentiche ragioni, solitamente frutto di accordi commerciali tra musei e istituzioni. I primi sono spesso chiusi perché in ristrutturazione e quindi, invece di tenere le opere in deposito, preferiscono farle fruttare in tournée; in altri casi rispolverano pezzi che restano di solito (e non a torto) in magazzino accompagnandoli con una manciata di lavori di qualità in mostre “chiavi in mano”. Le istituzioni invece si trovano comodi pacchetti e un nome blasonato da spendere presso il pubblico di massa (il cui desiderio di cultura non andrebbe svilito). Per entrambi sono efficaci operazioni di cassa e marketing. Ma più che mostre sono una semplice sequenza di quadri. Quello che manca in questi casi non sono le opere, ma una visione.

È quello che sarebbe potuto succedere ad Alba alla Fondazione Ferrero, che ha accolto la proposta del Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam (il principale della città olandese, in corso di ampliamento) di esporre la sua collezione Dada e surrealista (fino al 25 febbraio): una raccolta di prima importanza anche perché il suo nucleo è costituito dalle opere raccolte da Edward James, ricco ed eccentrico poeta britannico, tra i più importanti collezionisti di Dalí e di Magritte (di cui è in mostra il bellissimo “non ritratto” di James La reproduction interdite). E invece non accade.

Il curatore Marco Vallora ha costruito con i pezzi dati un percorso saldo, ben articolato e soprattutto costellato da una serie di documenti (tra libri originali, riviste e lettere, spesso parte della biblioteca di Breton) che non fanno di questa mostra una galleria di “capolavori” ma un viaggio nelle molteplici dimensioni di due movimenti capitali per il Novecento e la contemporaneità. Un percorso che nell’impianto critico si basa su un terreno consolidato ma che amplifica alcuni capitoli meno scontati, come ad esempio il pulsare di un “cuore antico” all’interno del Surrealismo, un’eredità – quella della meditazione sul classico – che discende per la Metafisica dechirichiana (e che a ritroso si ricollega con l’universo simbolista, inteso nella sua radice di esplorazione della realtà interiore, il cui cono d’ombra si allunga fino a oggi): l’antico, spiega Vallora, è «una sorta di rimosso... nella funzione di una quinta ideale e onirica, per premettere e potenziare questi viaggi sonda dentro la notte infida dell’inconscio appena risvegliato»: la Vénus de Milo aux tiroirs di Dalí, la Vénus restauréedi Man Ray, ma – con uno sguardo acuto – anche il plinto in cemento armato di La plus belle statue d’Amérique di Man Ray o La saignée di Magritte, trompe-l’oeil elusivo perché eleusino, da “artista-pizia” dice Vallora. O ancora «l’ibridazione delle arti e la nascita della cultura di massa».

Non solo il Surrealismo è tra i primi a capire la portata del cinematografo (bastino i nomi Buñuel, Clair, Cocteau) ma in nome di una rottamazione di ciò che è tradizione e compiacimento estetico entrambi i fenomeni manipolano con naturalezza un materiale visivo e lambiscono ambiti che oggi definiremmo pop. Una densità di approccio che si riversa nel catalogo (Silvana), implementato da interviste a intellettuali contemporanei sui temi di Dada e Surrealismo e un corposo blocco di apparati in cui compaiono numerosi testi inediti. Sul fronte generale Vallora si preoccupa di individuare figlianze, relazioni e divergenze, con Duchamp inappartenente a entrambi eppure sorta di trasvolante psicopompo.

Sono soprattutto le divergenze a emergere. Da una parte il nichilismo assoluto di Dada. Dall’altra la pars construens, il “sogno” di Breton: a suo modo un paradossale ritorno all’ordine (padri putativi – Freud, Roussel, Lautréamont –, metodo, obiettivi...) anche nella piega verso una ortodossia totalitaria. Da un parte il non sense, dall’altra un altro senso, più vero perché nascosto. Ma che i balbettii di Dada, contemporanei a Verdun e al Carso, fossero meno sensati della retorica dell’ormai centenario “Bollettino della Vittoria” oggi è lecito almeno dubitarlo.

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