venerdì 8 marzo 2013
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​Se l’Italia non cresce la colpa è di tanti luoghi comuni economici e sociali oltre che degli alibi che lo Stato si è costruito per giustificare la sua condotta e l’assenza di vere riforme per il rilancio. Alessandro Rosina, docente di Demografia e statistica sociale alla Cattolica di Milano, li chiama «gli alibi di un Paese immobile» e li pone a fondamento dell’analisi che sviluppa nel suo ultimo libro, edito da Laterza, L’Italia che non cresce (pp 163, euro 12). E per cominciare parte dall’essenziale concetto per il quale non è più possibile pensare a una crescita del sistema Paese misurata solamente da parametri economici e fondata sul solo incremento di produzione e consumi. Quel che conta, spiega, è il benessere largamente inteso, quindi anche sociale, culturale, ambientale. E non si può considerare crescita tutto ciò che non crea opportunità e futuro per le nuove generazioni. E questo Paese invece di creare opportunità per i giovani le ha cancellate...«Perché non è crescita ciò che ci fa stare meglio economicamente rispetto a ieri ma impoverisce il futuro perché non consente alla nuove generazioni di mettere a frutto le loro potenzialità. Ciò che serve, cioè l’investimento su infrastrutture e ricerca, su formazione e sviluppo del capitale umano non è stato fatto. Nei fatti la principale ricchezza di un Paese sono i suoi abitanti e per poterla sfruttare al meglio bisogna mettere la persona al centro di ogni progetto».E nel suo libro lei indica quattro categorie umane essenziali per la crescita: giovani, anziani, donne e immigrati.«Se noi non siamo riusciti a creare un modello vincente di sviluppo è perché su questi quattro punti invece di dare risposte ci siamo creati degli alibi che hanno fatto cronicizzare i problemi».Quali sono gli alibi sui giovani?«È luogo comune dire che i giovani sono troppo pochi. E in effetti le nostre politiche per la famiglia non sono state lungimiranti. Ma questo non può diventare un alibi per non investire sulla qualità. Anche la Germania ha avuto un calo di fecondità, ma ha compensato investendo in formazione, ricerca, politiche per il lavoro e ora la loro percentuale di giovani che non studiano e sono senza lavoro è la più bassa d’Europa. Allo stesso tempo hanno cominciato a preoccuparsi anche della quantità, investendo in politiche per la famiglia e per l’infanzia. Ma c’è poi un altro alibi...».Sempre sui giovani?«Sì ed è posto in questi termini: "Visto che non c’è lavoro facciamo bene a fare pochi figli". Questo è l’alibi di chi si rassegna al declino. Facciamo pochi figli ed evitiamo di investire su di loro e per loro, dicendo ai giovani di adattarsi con quel che c’è... Poi vanno all’estero e vengono valorizzati».Abbiamo pochi giovani, ma anche un surplus di anziani.«Anche questo è un luogo comune che spinge sempre più persone a tirare i remi in barca. Gli anziani si vedono come un peso, Così scatta l’alibi per non investire sugli over 60, che devono invece essere considerati una risorsa da mettere a frutto. Nel nostro Paese si vive di più che negli altri, ma il tasso di attività dei sessantenni è il più basso». Qual è la sua proposta?«Costruire una società per tutte le età. Niente più conflitti fra generazioni: sfruttiamole per le loro capacità. In gran parte dei settori non c’è competizione e negli altri si può pensare, per esempio, a contratti ad hoc, a forme di part time, in cui il vecchio agevola l’inserimento del giovane. Insomma, bisogna fornire opportunità per essere attivi più a lungo, non costringere a esserlo».Vuol dire che la riforma Fornero è controproducente?«Alzare semplicemente l’età della pensione è un errore. Il lavoratore si demotiva, l’azienda non cresce e non può assumere giovani. La riforma Fornero non ha senso se non si rende soddisfacente il lavoro degli anziani, oltre che compatibile con quello dei giovani. Per questo diventano essenziali agenzie per l’impiego che sappiano collocare, incentivare, consigliare sia i giovani che i lavoratori in età matura».Diceva degli immigrati.«Si dice che tolgono lavoro ai giovani. In realtà il contributo degli immigrati al Pil è maggiore della percentuale degli immigrati sulla popolazione italiana. Quindi apportano benefici, anche perché il loro lavoro è spesso complementare e c’è una gran quantità di nuove imprese condotte da stranieri. In questo senso invece di attuare politiche di contrasto all’immigrazione bisognerebbe attuare forme di selezione all’entrata, in termini di qualità e in funzione delle necessità».Nel libro affronta gli alibi sulle donne in correlazione con quelli che riguardano la famiglia.«Perché l’alibi della famiglia è stato usato dallo Stato per non fornire servizi sociali adeguati: tanto agli anziani non autosufficienti, alle varie forme di handicap, alla cura dei bambini più piccoli ci pensa la famiglia. Così molte donne non hanno potuto mettere a frutto le loro capacità produttive. In realtà l’accentuata solidarietà familiare (che è una caratteristica di questo Paese) è un dato essenziale per la crescita della società e andrebbe valorizzato, ma non esistono politiche per la famiglia, che si trova costretta anche a scelte controproducenti per la società: le donne spesso non lavorano o non fanno figli. Invece lo Stato dovrebbe considerare la famiglia per quel che è: un’opportunità di crescita enorme».
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