domenica 4 giugno 2017
Lasciata a se stessa la terra diventa inospitale: non è lei ad avere bisogno di noi ma noi di lei. Salvare la terra significa trasformarla in casa
Jean Francois Millet, “L’angelus” (1857). Parigi, Musée d’Orsay

Jean Francois Millet, “L’angelus” (1857). Parigi, Musée d’Orsay

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La difesa, per non essere sopraffatto, e la cura, per trarne sostentamento: queste due azioni dell’uomo hanno modellato (e progettato) la natura. L’intervento è sempre stato sostenuto da un intento estetico, perché armonia è la parola che consente la vita. Un’armonia simbiotica che la modernità ha messo in crisi, sostituendola con sfruttamento e sopraffazione. Un numero crescente di persone oggi, da più parti, cerca nuove vie per ricostruirla, in una sintesi tra spazi e stili di vita capaci di riscoprire il senso profondo della parola “creato”. È questo il filo rosso dello speciale del numero di giugno di “Luoghi dell’Infinito”, di cui anticipiamo qui un estratto dell’ampio testo di Ermes Ronchi e Marina Marcolini. Tra le altre firme dello speciale: Enzo Bianchi, Maria Antonietta Crippa, Marco Romano,

Il rapporto tra uomo e natura è cambiato, in questi ultimi decenni, quanto e più del rapporto tra uomo e uomo. La sensibilità ecologica ha obbligato la teologia e l’esegesi a scavare di più. Ha chiamato tutti a occuparsi del degrado del creato come di un problema non accessorio, ma uno dei più gravi e urgenti, questione di vita o di morte. Ci è richiesta una metànoia; niente si può fare se non partendo da qui: da una conversione. Il primo racconto biblico della creazione è incentrato sull’atto creatore assoluto di Dio e narra il suo amore per la varietà, la diversità e la ricchezza della vita. Un Dio attento a ciascuna erba, a ciascun seme, a ciascun albero (Gen 1,29) – che ama la biodiversità, si direbbe oggi –, innamorato dei dettagli, con i quali compone la tela multicolore del creato. Il contrario della omologazione e sterilizzazione dei semi operate dalle multinazionali. Che impoveriscono il pianeta. Il secondo racconto narra l’ingresso dell’uomo nella storia, che è una storia di relazioni: inscindibilmente con Dio e con le creature. L’uomo è posto in un giardino, in una relazione che è speciale: ci sono fiori e gemme, pesciolini e pulcini, e l’uomo non vi ha lavorato per niente. Una divina anticipazione in attesa della venuta degli umani. Un dono. «Il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,8). La Bibbia racconta di un Dio giardiniere, che ha un rapporto diretto con la terra ( adamà), la madre terra, per lavorarla, farla morbida nutrice di semi. L’azione creatrice di Dio è piantare alberi, fiori, giardini. E legami: l’uomo è dentro, in relazione, coinquilino. Diciamo che la terra è fragile e che perciò bisogna prendersene cura. Ma non è così. La terra non è un anima-letto fragile: è forte e fertile. Non ha bisogno di noi per mantenere i suoi cicli vitali. La vita si è evoluta per milioni di anni prima che l’uomo facesse la sua comparsa e potrebbe andare avanti per altrettanto tempo se la specie umana sparisse. Non è la terra in sé a essere bisognosa di cure, ma la terra considerata come ambiente vitale per l’uomo, come casa da abitare. Lasciata a se stessa, la terra diventa un ambiente inospitale. La natura non ha bisogno di noi, ma noi abbiamo bisogno di lei. L’uomo deve custodire e coltivare la terra per trasformarla in casa: luogo dove trovare nutrimento, sicurezza, pace, bellezza; dove far fiorire l’umano. È questo che Dio comanda all’uomo in Genesi 2, donandogli un giardino che fornisce gli elementi indispensabili: l’acqua necessaria per mantenere la vita, il cibo – “alberi buoni da mangiare” –, e la bellezza – “alberi graditi alla vista”. Il giardino degli inizi non è una condizione perduta da rimpiangere, ma il progetto di Dio per la terra e per l’uomo, la meta cui puntare, la casa da edificare. Questo luogo non ha esistenza per se stesso, ma è figura di una relazione. Dipinge il paesaggio dell’alleanza. Il luogo dove l’uomo collabora con le altre specie viventi e non fa loro la guerra, dove mette a disposizione la sua creatività e intelligenza per accrescere la vita propria e degli altri viventi. È quello che oggi l’ecologia chiama partnership etica. La terra può essere una casa ospitale per l’uomo soltanto se l’uomo si impegna a custodire ciò che Dio gli ha dato in prestito, perché la terra non è dell’uomo. Noi apparteniamo alla terra ma la terra non appartiene a noi. Promuovendo la vita della terra, l’uomo promuove la propria vita. Facendo fiorire la terra, fa fiorire se stesso. Custodire il creato e coltivare l’umano non sono due questioni diverse, ma due aspetti della stessa. Meglio perciò parlare di custodia e coltivazione della vita. È la vita sotto attacco oggi, la vita in tutta la sua complessa rete di interrelazioni. Pensiamo all’immagine della donna incinta dell’Apocalisse, con il drago che le vuole divorare il bambino: è la vita minacciata. Ha scritto papa Francesco che «mediante la nostra realtà corporea, Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione» (Evangelii Gaudium, 215). Noi siamo natura. Il nostro corpo è composto di miliardi di atomi che sono appartenuti ad altre creature, siamo attraversati ogni giorno dall’aria, dall’acqua, dal cibo, che hanno compiuto lunghe migrazioni prima di giungere a noi. Invece che pensarci separatamente come esseri umani e natura, è più adeguato pensarci come una sola comunità di viventi. Prendere atto di questa interconnessione non è una mortificazione, può dare invece un senso di benessere, di pace e comunione. Siamo collegati come le vene del corpo, come corsi d’acqua confluenti, non solo con gli esseri del nostro pianeta ma con l’universo. Esistere è coesistere. Siamo abitanti insieme a tutti i viventi, tutti nella stessa casa comune, e non ce n’è una di riserva. O ci salveremo insieme o affonderemo insieme.

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